Non dire gatto (o Sauvignon) se non l'hai nel sacco

Millevigne

“Qui c’è del Sauvignon” disse il degustatore con superpoteri, sniffando il calice con collo proteso e occhi fissi in avanti, come il segugio che ha sentito la lepre.
Forse era vero, e forse no. La tecnica della vinificazione in riduzione, o in iper-riduzione, che ha reso famosi i Sauvignon blanc della Nuova Zelanda, trova ormai molti seguaci anche in Italia e ha la capacità di evidenziare alcuni aromi particolari, legati a composti odorosi dello zolfo (classici descrittori sono la foglia di pomodoro, di bosso, di fico, l’urina di gatto, da cui il titolo). I precursori aromatici tiolici sono massimamente rappresentati in quella varietà, tanto che questi odori sono avvertibili, nel Sauvignon, anche in vinificazioni più tradizionali; ma sono presenti, in tono minore, in molti altri vitigni bianchi, anche italiani, nei quali però i relativi aromi si esprimono, detto un po’ schematicamente, vinificando in assenza di ossigeno. Tra questi vitigni ci sono la Garganega, il Timorasso, il Pecorino, il Verdicchio, il Catarratto e molti altri. 

Recentemente ho partecipato   a una degustazione professionale di Soave nell’ambito del progetto “Soave in 3d”, proposto da Consorzio di Tutela come tentativo di focalizzare un aspetto di cui si parla molto ma per il quale manca un metro di misura: cioè l’aderenza di un vino al vitigno e al “terroir”.  Non voglio qui avventurarmi nella trattazione di questo tema, particolarmente scivoloso, ma cercare risposta alla seguente domanda: quanto può spaziare il ventaglio delle proposte stilistiche, in un vino a denominazione di origine controllata, perché rimanga riconoscibile come tale? E’ giusto che la DOP, in quanto marchio collettivo, consenta ai produttori una certa libertà di espressione, anche in relazione alle diversità dei territori. Ma fino a che punto può spingersi questa libertà senza creare nella testa del consumatore una gran confusione? E’ una domanda di particolare attualità, nell’anno in cui celebriamo il cinquantennio dell’istituzione in Italia della DOC. 

In Italia il “via libera” all’uso della denominazione protetta prevede la degustazione del campione da parte di una commissione di esperti. Mai come oggi i tecnici che compongono queste commissioni sono sottoposti a stressanti pressioni da parte di produttori e critici, e oggetto di accuse contrapposte: o di allargare troppo le maglie, ammettendo alla DOP vini di qualità e tipicità dubbie, o, al contrario, di penalizzare lo stile del produttore, bocciando un vino che non risponde ai canoni del disciplinare e della consuetudine, anche se spesso è apprezzato almeno da una parte del mercato. 
Non ho mai fatto parte di alcuna di queste commissioni e non me ne dolgo: infatti di fronte a molti vini mi sentirei in difficoltà.  Mai come oggi si stenta a trovare in alcuni membri della stessa famiglia un denominatore comune. Nel tentativo di occupare una propria nicchia di mercato, o semplicemente di personalizzare il proprio progetto enologico, i produttori di una certa DOP fanno il vino nei modi più diversi. Si va dai più radicali interpreti del vino cosiddetto “naturale”, che ripudiano ogni tecnologia, fino a quelli che di tecnologie fanno invece un uso molto raffinato, per non dire esasperato. Ed è difficile riconoscere, ai due estremi, la stessa tipologia di vino.  Affermare che la tecnologia allontani il vino dall’idea di terroir è una semplificazione, se non una mistificazione: infatti se è vero che l’applicazione pesante di alcune tecnologie può portare a una certa uniformazione, è anche vero che una deviazione organolettica grave (tutt’altro che rara nel vini che ripudiano ogni tecnologia) è altrettanto, o forse più, omologante e “anti-terroir”.  
Le DOC sono uno strumento di mercato, e occorre che alcune tendenze del mercato vengano, in qualche modo, recepite dai selezionatori. La storia del vino è una storia circolare, e se negli anni ottanta e novanta, per citare gli anni forse della massima fascinazione degli enologi per la tecnologia, una minima velatura, una volatile appena sopra la soglia di percezione, un vago sentore di “lievito morto” o di “pera stramatura” potevano giustificare una bocciatura, oggi forse non è più così, perché molte cantine hanno scelto di ridurre l’impatto di alcuni interventi e di alcuni additivi (i solfiti in particolare)  spinti dalla crescente richiesta di un mercato che chiede “naturalità”. E tuttavia dei limiti ci devono pur essere, sia in un senso, quello del vino “contadino” (e mi scuso con i tanti contadini che fanno vini eccellenti) che puzza di feccino o di aceto,  sia nell’altro, quello del vino “marziano”, come un Soave che sa di Sauvignon.

Il compito di dare qualche indirizzo in tal senso alle commissioni tecniche, non per insegnare ai gatti ad arrampicare, ma per togliere ai giudici un poco di imbarazzo,  appartiene, a mio avviso, alla comunità dei produttori (che dovrebbe essere rappresentata dai Consorzi di tutela), degli operatori economici, dei consumatori. E’, insomma, necessario che i giudici tengano conto dell’evoluzione del gusto, senza per questo cadere nell’errore di inseguire mode effimere, perché ciò non sarebbe coerente con il concetto stesso di denominazione di origine.  In sostanza chi giudica, a maggior ragione se il suo giudizio ha un valore legale, deve lasciare da parte ogni convinzione ferrea, interrogarsi con umiltà sul ruolo che è chiamato a svolgere e confrontarsi con il “mondo”. Dall’altra parte, quella della produzione, bisogna capire che non è affatto obbligatorio fare vini a DOC. Il produttore insofferente ad ogni disciplina può tranquillamente decidere di non utilizzarla, tanto più che il marchio di infamia di “vino da tavola” oramai è stato abolito, e con un po’ di fastidi burocratici in più si può anche scrivere l’annata. Alcuni produttori hanno scelto questa strada, anche perché stufi di vedersi bocciare il vino. Alcuni poi, fatta l’esperienza, rientrano nei ranghi, rendendosi conto che la DOC, con tutti i suoi problemi e la sua burocrazia, è comunque, per il consumatore di vini di qualità, una garanzia alla quale non rinuncia con tanta leggerezza, soprattutto se sull’etichetta non c’è scritto un nome famoso.

Per concludere, un produttore che si è visto bocciare, in prima battuta, la DOC per un suo vino (approvato poi nel girone di ritorno) mi ha trasmesso alcune note di due importatori, uno in USA, l’altro in Canada:

USA:
Per quanto riguarda la DOC, per noi solitamente non è tanto importante - abbiamo alcuni produttori francesi che hanno regolarmente lo stesso problema (compreso uno dei grandissimi nomi del vino francese), e noi ed i nostri clienti lo prendiamo come un segno che la commissione non capisce niente! (... o, spesso, vuol dire che è controllato dai negozianti che vogliono promuovere uno stile "industriale" bocciano i vini piuttosto tradizionali e/o naturali.)

 Canada:
we'll be dealing with a non-xxx (nome della denominazione) a back-label I have ordered the wine as yyy (nome di fantasia). The wine is quite good to me, no need to worry.”

Materia per riflettere mi pare che ce ne sia.