Come è amaro l’Amarone altrui

Millevigne

Tuoni, fulmini, pioggia e grandine in maggio sulla Valpolicella. Dal cielo, ma non solo. Una decisione del Consorzio di Tutela sulla modifica del disciplinare di produzione ha scatenato altri fenomeni temporaleschi, determinando una spaccatura tra i produttori.

L’Amarone è un vino di successo, la produzione è andata aumentando in modo esponenziale negli ultimi anni, attraverso un’espansione dei vigneti , ma soprattutto destinando quote crescenti di uve all’appassimento, anche in zone dove questa tradizione era meno diffusa. L’utilizzo di supporti tecnologici un tempo non disponibili, cioè le celle di forzatura, ha scuramente reso questo procedimento più facile, più sicuro nei risultati ed anche più facilmente applicabile a uve con caratteristiche meno uniformi di quelle richieste un tempo.  Il disciplinare dell’Amarone, del 1968, recita:

1) Le condizioni ambientali e di coltura dei vigneti destinati alla produzione dei vini della denominazione di origine controllata e garantita “Amarone della Valpolicella” devono essere quelle tradizionali della zona e, comunque, atte a conferire alle uve ed al vino derivato le specifiche caratteristiche.
2) Pertanto sono da escludere, in ogni caso, ai fini dell’idoneità alla produzione dei vini di cui all’articolo 1, i vigneti impiantati su terreni freschi, situati in pianura o nei fondovalle.

Il CdA del Consorzio di Tutela ha deciso di sopprimere il comma 2. Questi due commi rappresentano una specie di mantra, regolarmente ripetuto in centinaia di disciplinari italiani, e generalmente inapplicato. Perché? I motivi sono diversi: la preesistenza di vigneti che non soddisfacevano quelle caratteristiche ma “sembrava brutto” escludere; le pressioni politiche degli assessori sui funzionari affinché chiudessero un occhio, o entrambi;  ma, soprattutto, l’enorme difficoltà di tracciare una linea chiara e netta tra ciò che è fondovalle, pianura, terreno fresco, e ciò che non lo è. Si cominciano ad autorizzare i casi incerti e, poco per volta, il confine si sposta sempre più avanti, con il risultato che quei due commi, soprattutto il secondo, diventano carta straccia. Poi cambiano non le regole, ma i controllori e i sistemi di controllo, qualcuno si accorge dell’anomalia e la grana scoppia. A questo punto ci sono due strade: rifare gli albi applicando alla lettera la regola ed escludendo i vigneti che non la soddisfano, oppure cambiare la regola, considerando quella frase un "vizio di forma" come ha dichiarato, invero piuttosto arditamente, il presidente del Consorzio Marchesini. La seconda soluzione è la più semplice. La prima è non solo difficile, ma impossibile. Primo, perché per applicare la regola (ammesso che sia una regola giusta: l’equivalenza collina=qualità e pianura=qualità inferiore sembra oggettivamente un po’ troppo semplificatoria) occorre farla uscire dalla vaghezza e fissare parametri di misura molto precisi.

Cosa impossibile all’epoca in cui furono scritti i disciplinari (1968), ma forse possibile oggi, grazie ai modelli digitali tridimensionali del territorio, che per ogni particella possono fornire dati quali altitudine, pendenza, esposizione, radiazione solare e distanza dai corpi d’acqua principali. Combinando tutti questi elementi e sovrapponendoli, eventualmente, a una carta geopedologica (i terreni freschi), si potrebbe arrivare a una ragionevole zonazione che consenta di dire chi è dentro e chi è fuori. Ma con effetto non retroattivo.  Infatti, chi ha autorizzato quei vigneti che erano fuori dalla regola come se la cava? Bisogna segnalarlo alla magistratura? E i vini finora venduti, o tuttora in giacenza, come DOCG, senza averne diritto se applichiamo in modo pedissequo il mantra del comma 2? Vanno sequestrati e sanzionati? Non se ne esce così semplicemente. 

Per questo, pur comprendendo, ed anzi condividendo, le ragioni di chi difende il concetto di fondo che ispirò quel disciplinare, e che per questo polemizza contro le decisioni del Consorzio (il gruppo le Famiglie dell’Amarone dell'Arte ed altri), credo che sia necessario raffreddare le polveri e riprendere la discussione in modo più pacato. Non spetta a me dare consigli ai produttore della Valpolicella ma mi permetto di esprimere un paio di opinioni. Primo, uscire dai Consorzi (al plurale, perché vale per tutti e per tutta Italia) non serve a niente, se non a rafforzare le posizioni di chi la pensa diversamente da noi, e che, a maggior ragione, prenderà senza di noi le decisioni che riguardano tutta la denominazione. Secondo, partire dai dati della realtà quale essa è, non quale vorremo che fosse, aiuta a capire gli errori,  se ci sono stati, e a non ripeterli.

Infine, è opportuno stabilire regole nuove, finalmente chiare e non ambigue, verificabili con gli strumenti oggi disponibili, per tutti i nuovi impianti, sulla base di una zonazione qualitativa del territorio un po’ più articolata e tecnicamente motivata della semplice distinzione collina/pedemontana/pianura, senza che questo penalizzi gli impianti già esistenti e già autorizzati alla produzione di Amarone (e non vale certo solo per l’Amarone). Anche questa scelta non sarà indolore e non potrà accontentare tutti, ma su questa materia i conflitti non si possono evitare, ed anzi cercare di evitarli è sbagliato: i conflitti vanno gestiti, mantenendoli su un piano di rispetto reciproco, e impedendo che degenerino in astio, delazione, vendetta. I Consorzi devono fare questo. Ognuno deve prendersi le sue responsabilità senza farsi prendere dalla tentazione di “mollare tutto e fare da solo”, perché la denominazione è un patrimonio collettivo, da soli non si va da nessuna parte.