Vitigno, una gabbia troppo stretta?

Millevigne Blog

"Non è la specie più forte a sopravvivere, e nemmeno quella più intelligente, ma la specie che risponde meglio al cambiamento". (C. Darwin)

Tutta la normativa europea sul vino, dalle autorizzazioni alla coltivazione nelle varie regioni ai disciplinari di produzione delle DOP, si basa sul concetto di "vitigno". Un vitigno è la progenie di un singolo seme, moltiplicata esclusivamente per via vegetativa al fine di conservarne intatto il genoma. Ma intatto non è la parola giusta perché mutazioni gemmarie spontanee portano, nel tempo, ad una certa variabilità detta intravarietale, a volte notevole, come quella che ha portato a differenziare i vari Pinot sulla base del colore, tanto da essere considerate varietà distinte. Per questo i vitigni che al loro interno mostrano una maggiore variabilità sono indiziati come i più antichi, in quanto hanno avuto più tempo per differenziare biotipi molteplici. La selezione clonale in fondo non fa che percorrere il cammino inverso a quello della natura, tornando a semplificare ciò che era stato complicato dalle mutazioni spontanee. Di per sé quindi non è una minaccia alla biodiversità (come sostiene qualcuno), ma lo diventa se l'adozione esclusiva di un numero limitato di cloni da parte della produzione porta all'abbandono di tutta la variabilità presente nei vecchi vigneti, che dobbiamo considerare come un patrimonio. Un esempio è quello del deperimento del Syrah, un problema che colpisce soprattutto un certo gruppo di cloni, ed essendo legato almeno in parte (così pare) a una sorta di rigetto della marza da parte del portinnesto, non esisterebbe "in natura", come infatti pare non esistere su vecchie viti franche di piede in aree indenni da fillossera.

Ma la continua propagazione di una pianta per via vegetativa, quindi senza che la riproduzione sessuale giunga, per così dire, a sparigliare le carte, non è una pratica contro natura, che rischia di indebolire nel tempo le risorse della pianta minando la sua "resilienza", cioè la sua capacità di rispondere a mutamenti e minacce esterne? E' una domanda che ho cominciato a pormi vedendo i vigneti di Barbera nel Monferrato, dove abito, devastati dalla Flavescenza dorata, malattia ad oggi incurabile che si manifesta però con una virulenza epidemica diversa a seconda della varietà.

Da un intervento sulla "vite da seme" dei colleghi della "Scuola di Milano" (Scienza, Brancadoro, Cricco) pubblicato sul blog enoico dell'Espresso di Fabio Rizzari ed Ernesto Gentili, traggo questo passaggio:

"Quali i motivi di questa maggiore "fragilità"? Noi crediamo che siano legati proprio all'ormai ultra centenaria propagazione vegetativa dei vitigni da noi utilizzati. La vite, come tutti gli esseri viventi, nel corso della sua vita accumula al suo interno microrganismi che perlomeno ostacolano le normali attività fisiologiche della pianta e sono trasmessi in toto alla discendenza ottenuta per via agamica. Per rendere l'idea sarebbe come ottenere un bel pargolo dal dito del nonno, questo esteriormente presenterebbe tutte le caratteristiche di un neonato ma al suo interno avrebbe la corruzione dell'avo. Questa condizione, che si e incominciato a studiare attraverso la metagenomica, lo studio del DNA non riconducibile al genoma dell'individuo indagato, sta in parte svelando quanto sia complessa la condizione della vite, che risulterebbe più un affollato condominio piuttosto che una semplice pianta.<<Non è la specie più forte a sopravvivere, e nemmeno quella più intelligente ma la specie che risponde meglio al cambiamento>>". Questa citazione di C. Darwin ci offre lo spunto per affrontare il secondo punto che possiamo sintetizzare così: la propagazione della vite per via vegetativa, adottata in via esclusiva ormai da svariati secoli, impedisce la sua evoluzione. In questo periodo abbiamo cristallizzato i vitigni nella forma ritenuta da noi ideale o "true to type" (qui sì che possiamo parlare di eugenetica) ma questi vitigni selezionati dai semenzali perché ben rispondevano alle esigenze e alle condizioni di una viticoltura di un tempo, in alcuni casi medioevale, sono ancora i migliori vitigni per l'attualità?"

Biologi celebri come George C. Williams e Bill Hamilton hanno individuato nella riproduzione sessuale, una strategia riproduttiva complicata ed energeticamente costosa, uno stratagemma della natura proprio per garantire agli organismi superiori questa resilienza all'interno di uno scenario mutevole, a cui i parassiti si adattano continuamente mutando il loro genoma, mentre l'organismo che rimane sempre uguale a se stesso rischia di soccombere.

"Essere clonali equivale a comprare cento biglietti per la lotteria dell'evoluzione, tutti con lo stesso numero". (George C. Williams, 1966)

L'illusione della purezza

Fino all'epoca fillosserica, e spesso anche dopo, i vigneti italiani erano per lo più "contaminati" da varietà diverse da quella principale, e così i vini che ne derivavano. Non solo la fillossera, ma anche i disciplinari delle DOC hanno determinato una semplificazione del panorama, spesso ignorando vecchie varietà locali e aprendo invece le porte a vitigni che con il territorio e la tradizione non c'entravano nulla. Non sempre poi i disciplinari vengono rispettati, e non solo per qualche dolosa furbizia (Brunellopoli insegna), ma anche perché il "vitigno" nella sua definizione accademica può, nei fatti, non essere quello, all'insaputa del produttore e magari per errore dei vivaisti, soprattutto in epoche precedenti all'ampelografia contemporanea che può contare su un'impronta genetica certa. Casi ad ampio raggio riguardarono ad esempio Carmenére al posto di Cabernet Franc, Lambrusco Maestri al posto di Bonarda etc. Come diceva Usseglio Tomasset, noi scriviamo i disciplinari, ma la vite non sa leggere. Un caso emblematico, ma non unico, riguarda il Nebbiolo rosé (così detto dal colore degli apici vegetativi), a lungo considerato una sottovarietà di Nebbiolo presente nelle Langhe (al pari del Michet, il cui carattere distintivo di basso vigore è invece frutto di una virosi...), tanto da farne persino un clone omologato e regolarmente usato per fare Barolo e Barbaresco, pure di ottima qualità: fino a che l'analisi del DNA non scoprì che del Nebbiolo era solo parente stretto. Un assist per chi afferma la superiorità del ruolo del "terroir" su quello del vitigno, ma anche un bel motivo di riflessione. Vale la pena indignarsi per qualche gene sostituito (ne parliamo dopo) quando abbiamo fatto per anni Barolo con un vitigno che non aveva che la metà del "sangue" del Nebbiolo? (chiedo perdono ai genetisti, è una semplificazione per facilitare la comprensione): o quando chiamiamo Falanghina, con tanto di denominazione di origine, due vitigni diversi (la beneventana e la flegrea)?

Creare nuove varietà non è uno scandalo

In frutticoltura (compresa l'uva da tavola) la creazione e l'adozione di nuove varietà è continua. In viticoltura esiste, almeno per i vini di pregio, un blocco dovuto al forte legame con la tradizione, che ha un'enorme importanza sotto molti aspetti, compreso quello del marketing e della comunicazione. La riflessione che vorrei suscitare (perché la verità non ce l'ho) è sull'opportunità di creare, come compromesso, varietà molto simili, o quasi uguali, a quelle "tradizionali", ma capaci, per esempio, di resistere a un parassita. Non è fantascienza: chi ha avuto occasione di degustare i vini derivanti da alcuni incroci ripetuti di Sauvignon blanc con viti "non vinifera" (resistenti alla peronospora) difficilmente riconoscerebbe alla cieca quei vini come "non Sauvignon". Si accettano scommesse al riguardo. Le varietà resistenti sono ormai una realtà con cui produttori e istituzioni devono fare i conti, e presentano vantaggi (abbattimento dei trattamenti chimici) e rischi (la "delocalizzazione" della viticoltura in zone dove oggi il clima non lo consentirebbe, perché troppo freddo, umido o piovoso). Un'altra strada che qualcuno percorre (alcuni viticoltori e la già citata Università di Milano) è quella dell'autoimpollinazione, cioè ottenere semenzali da fiori autoimpollinati della stessa varietà, raggruppando poi quelli più simili ai parentali in una sorta di "famiglia" che potrebbe in futuro (del tutto ipoteticamente) sostituire il concetto stringente di vitigno.

OGM: non aprite quella porta

Certo l'ideale sarebbe produrre una varietà che abbia del vitigno "tradizionale" tutti i geni, più quello, o quei due (continuo a semplificare) che, aggiunti, o sostituendo altri, gli conferirebbero la resistenza a un parassita senza modificare i caratteri del vino. Cosa impossibile da realizzare con gli incroci tradizionali, anche con le più avanzate tecniche di incrocio assistito, ma possibile forse (non è certo) solo con l'ingegneria genetica.

Mi rendo conto che parlare di viti GM per la viticoltura italiana suona, più che come una bestemmia, come un intero concerto di trombe dell'Apocalisse.

Ma non dovremmo invece, sulla base di una corretta valutazione costi-rischi-benefici, e con tutte le precauzioni possibili, riconsiderare questa posizione, per salvare la viticoltura europea da catastrofi come la Flavescenza, o anche solo per abbattere l'impatto ambientale della viticoltura (che consuma il 60% degli anticrittogamici in Europa)? Le ragioni di chi è contrario sono forti e rispettabili: tradizione, natura (benché nella vite coltivata ci sia poco di naturale), legame con il passato, regime normativo internazionale, disciplinari DOC, rischi ancora incogniti di una tecnica comunque invasiva, delocalizzazione. Ciò nonostante, la domanda resta. Rispetto ad altre specie ci sono vantaggi: la vite di norma non si riproduce per seme quindi non preoccupa la deriva di polline, fatte salve le poche aree dove vive ancora la vite selvatica europea; e si tratterebbe di "cis-genesi", operando sullo stesso genere Vitis, se non sulla stessa specie (diversamente che trasferire un gene da un batterio a un cereale, come si è fatto per il mais BT, cioè la transgenesi propriamente detta). In ogni caso trovo ingiustificabile aver bloccato la ricerca pubblica in pieno campo, che avrebbe potuto darci elementi concreti e indipendenti di valutazione, al posto dei cori da stadio OGM no / OGM sì che in Italia hanno finora dominato il dibattito, con argomenti del tipo cibo Frankenstein, fragola pesce, gli OGM vinceranno la fame nel mondo: vere e proprie baggianate, da entrambe le curve dello stadio.