Maurizio Gily

Maurizio Gily

Il fantasma della libertà (di impianto)

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Il cammino verso la liberalizzazione degli impianti viticoli, prevista in Europa per il 2015, ha avuto una battuta d’arresto. Lo ha riferito il Commissario Ciolos da Cipro, dove erano riuniti i ministri dell’agricoltura della UE: “Non ci sarà un ritorno al passato e neppure una liberalizzazione completa, ma una nuova regolamentazione”.

A sostenere la fine del blocco a favore di una maggiore libertà di impresa erano e sono quasi tutta l’industria vinicola e una minoranza di imprese agricole imbottigliatrici, sostenendo che costituisce un freno allo sviluppo economico delle aziende leader e del settore in generale. Ad esse si aggiungono associazioni di consumatori, che vedono nel blocco un artificio per sostenere il prezzo del vino, e i paesi non produttori del nord, che, per cultura, non hanno mai visto di buon occhio qualunque strumento di controllo dell’offerta.

Favorevole al permanere del blocco sono i paesi mediterranei, la gran maggioranza della parte agricola, sia individuale che cooperativa, ma anche una parte della piccola impresa di trasformazione che opera sui segmenti più alti del mercato. Essi temono che liberalizzare avrebbe come conseguenze una deriva a favore delle grandi aziende, la decimazione dei piccoli viticoltori (il “vignaiolo” come normalmente lo intendiamo non è un’esclusiva dell’Europa, ma quasi), il crollo dei prezzi e lo slittamento della viticoltura verso zone di pianura, con detrimento dell’immagine del vino europeo e creazione di grandi sacche di nuova povertà nelle zone rurali. Uno scenario troppo catastrofico? Forse: ma l’idea di fare un esperimento pericoloso stando dentro alla provetta ai vignaioli europei non sorride per niente, perciò vedono con favore il parziale ripensamento che viene da Bruxelles via Cipro.

In effetti quando ci si chiede cosa sia meglio per il “settore ” a volte si scorda che al suo interno operano operatori diversi, che svolgono ruoli diversi, e che hanno interessi in parte simili (che il vino si venda e si venda bene) e in parte diversi (che le uve e i vini sfusi valgano molto, oppure che valgano poco, a seconda se devo vendere oppure comprare) . Tra il produttore agricolo puro e il trasformatore/commerciante puro ci sono le aziende che sono l’uno e l’altro, e rappresentano una percentuale elevata del comparto. Altro elemento chiave è la rigidità della struttura produttiva. Una congiuntura favorevole dei prezzi all’ingrosso spinge le aziende a piantare vigneti, incoraggiate dall’industria, ma tali congiunture sono effimere, mentre un vigneto deve durare 30 anni o più per ammortizzare il capitale investito: il blocco, contingentando le superfici, riduce il rischio legato ad una possibile sovrapproduzione.

Se i vincoli da una parte sostengono il reddito degli agricoltori (un gioco che non sempre funziona in un mercato globale, visto che altrove vigono altre regole) e frenano gli speculatori, dall’altra pesano sulle imprese più dinamiche, il cui obiettivo non è sottopagare la materia prima ma espandere il proprio mercato, avendo le capacità per farlo. Il compromesso che pare emergere è quello di affidare alle forme organizzate dei produttori le decisioni relative. Per i vini a denominazione di origine l’interlocutore dovrebbe essere l’interprofessione, cioè i Consorzi di tutela. Di fatto già oggi alcuni Consorzi, in accordo con le Regioni, pongono limiti aggiuntivi a quelli già in essere per l’iscrizione alle denominazioni: ad esempio il divieto di riconversione verso una certa varietà, o di realizzare nuovi impianti con diritti acquisiti fuori zona. Dovrebbero essere limitazioni temporanee, legate a scenari non favorevoli di mercato o ai rischi di un’eccessiva rincorsa della domanda (come si è fatto, forse troppo tardi, per il Prosecco): ma talvolta questi tempi si dilatano verso l’eternità e questo rischia di ingessare troppo il comparto.

In ogni caso spostare questo difficile gioco di equilibrio all’interno della filiera pare effettivamente la strada più logica da seguire, anche se lascia aperti molti fronti di discussione: dalla “sovranità” dei consorzi di tutela sulle denominazioni, alla rappresentatività delle diverse categorie al loro interno, fino al ruolo delle OP, le organizzazioni dei produttori che rappresentano solo la parte agricola ma che, per il vino, spesso è anche trasformatrice. Le denominazioni di origine sono un patrimonio culturale dell’Europa ed hanno, in questa questione, un ruolo chiave. Sono un patrimonio collettivo, che collettivamente va gestito, attraverso i consorzi di tutela, con tutte le difficoltà che questo comporta, compresa a volte la necessità di dare battaglia per far valere i propri diritti: ma, come in politica, chi si chiama fuori non può che subire le decisioni della maggioranza, riservandosi il solo diritto di criticarle.

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Igiene: la colpa di essere piccoli

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Il concetto che i prodotti alimentari industriali e confezionati siano più “controllati” e quindi più sicuri di quelli artigianali è abbastanza radicato. Ma vari fatti recenti di cronaca, dal cavallo clandestino in sughi e  lasagne, all’inquinamento biologico di  vari prodotti dispensati nel self service IKEA, fino alle ultime notizie che coinvolgono giganti come Star e Nestlé, disegnano una scenario ben diverso:  più una catena di produzione è lunga e complicata, più è difficile ricostruirne tutti i passaggi, tracciare l’origine delle materie prime e assicurarne la qualità.

Con questo non si vuole dire che il prodotto “industriale” sia per sua natura pericoloso: ma piuttosto che il rischio alimentare dipende dalla qualità dalle persone che prendono le decisioni strategiche e controllano i fornitori, più che dalla dimensione delle imprese; e che, comunque, è più facile assicurare la qualità e la sicurezza su scala piccola che grande.  Esiste anche un dato economico: nell’industria il profitto si gioca sui grandi numeri, quindi è molto importante risparmiare sulla materia prima. L’artigiano non ha azionisti affamati a cui presentare trimestrali di cassa, dimostrandosi un grande manager per aver risparmiato dieci centesimi su un chilo di carne: risparmio che si tradurrà magari, almeno in parte, in un “bonus” in denaro per il manager, evidenziando uno degli aspetti più irrazionali e perversi del capitalismo moderno. 

Non è accettabile, in questo contesto, che ai piccoli produttori, di vino, formaggio, o altro, si impongano continuamente nuove vessazioni e nuovi investimenti sui loro impianti, per fronteggiare rischi sanitari inesistenti. Il livello di rischio microbiologico o sanitario è strettamente legato alla complessità della filiera, al numero di passaggi che un bene compie prima di diventare materia prima per quella lavorazione,  e al tipo di lavorazione: un macello non è un panificio, una pasticceria non è una distilleria, una gastronomia non è una cantina. Chi applica le norme in modo pedestre (non tutti, va detto) mette tutto e tutti sullo stesso piano perché, semplicemente, ignora la natura dei processi e dei prodotti , e quindi dei rischi.

Per fare un esempio, un birraio artigianale mi raccontava che a stento è riuscito a evitare un verbale per qualche riga sul pavimento appena fatta dalle gomme del muletto, ma nessuno ha verificato cosa ci fosse nei tubi dell’impianto di imbottigliamento.  Come era quel detto sul dito, la luna e lo sciocco?

Anni fa, quando uscì la normativa sull’HACCP, un funzionario con compiti ispettivi disse in una riunione che la ristorazione non doveva più usare i formaggi a latte crudo. Fu molto sorpresa di sapere che tra questi c’è il Parmigiano, per il quale si ignorano casi storici di intossicazione alimentare, benché si produca da ottocento anni, e del quale, con tutta evidenza, la ristorazione non può fare a meno. Sul piano organolettico molto ci sarebbe poi da dire sul ruolo della microflora spontanea nella tipicità territoriale dei prodotti (soprattutto i formaggi, ma in parte anche i vini, il pane e altri alimenti), e sull’impatto deleterio che hanno su di essa le fobie igieniste.

A dispetto del fatto che in Europa dovremmo avere tutti la stessa disciplina, chiunque abbia visitato piccole aziende in Francia, Gran Bretagna, persino Germania, cioè paesi avanzati e con un sistema sanitario molto efficiente, si è potuto rendere conto che l’attenzione a una serie di dettagli da parte delle autorità è più ispirata al buonsenso, e alla conoscenza dei processi,  che allo zelo, e che gli ambienti di lavoro  dove operano i piccoli artigiani (salvo lavorazioni che comportino rischi elevati), pur rispettando le norme igieniche fondamentali, sono lontani dalla sala operatoria che molti ispettori delle nostre ASL vorrebbero vedere qui da noi. Gli aneddoti che molti produttori hanno da raccontare passano i confini del ridicolo. A pena di verbali, sanzioni, prescrizioni sempre più impossibili da rispettare perché i soldi per gli investimenti non ci sono più, sono finiti, e buona parte se l’è presa lo stato.  Uno stato sempre più severo con contribuenti spremuti fino all’osso, ma sempre indulgente con se stesso: lo vediamo quando entriamo in alcune strutture sanitarie pubbliche, obsolescenti e malandate, dove molte norme igieniche sono puntualmente disattese: senza che questo, salvo casi estremi, generi verbali, sanzioni, sequestri o la semplice rimozione di qualche manager superpagato.

Si potrebbe obiettare che proprio dal Nord Europa sono arrivati i più eclatanti casi di inquinamento degli alimenti degli ultimi anni, quindi il nostro sistema è migliore: può darsi, ma in realtà tali problemi non sono mai stati generati da lavorazioni artigianali, ma sempre da catene produttive e distributive grandi e complesse: evidentemente è proprio qui che i controlli si dimostrano inadeguati.

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Degustatori con superpoteri

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Che esistano degustatori con doti naturali superiori alla media non vi è dubbio. Sono doti di diversa natura: genetiche, riguardano i recettori olfattivi e gustativi ma anche zone più interne del sistema nervoso, quelle legate alla memoria; poi ci sono aspetti più culturali, l’educazione del gusto, la ricchezza e la capacità di linguaggio.

Infatti il “giudizio organolettico” è frutto di un processo che comprende, schematicamente, tre fasi: la percezione attraverso gli organi di senso, la trasmissione del segnale al cervello e la sua elaborazione “culturale”. Per fare un esempio, un bambino spesso rifiuta un gusto amaro, o l’odore di un alimento non fresco, che ha subito trasformazioni ossidative e/o proteolitiche, come il gorgonzola o lo stoccafisso. Potrebbe trattarsi di un meccanismo di difesa dell’organismo che lo mette al riparo da alimenti avariati che potrebbero nuocergli (l’amaro nel latte è frutto di una deviazione batterica, che però non è considerata tale in alcuni formaggi). Con il tempo impariamo ad apprezzare sapori e gusti più “evoluti” come questi, grazie all’assuefazione, ad un progressivo cambiamento dell’alimentazione e alla mediazione culturale. Sentori che un degustatore di vino professionale considera deviazioni altri commentatori, soprattutto nel variopinto mondo dei “blog”, sono disposti ad accettarli, se non addirittura ad apprezzarli, come segnali di distinzione, di genuinità, addirittura di “territorialità”. Come dicevano gli antichi, de gustibus non est disputandum. Allo stesso modo gli odori classificati “di ridotto” in un vino sarebbero, secondo uno studio australiano, meglio accetti dagli “esperti” che non dal consumatore medio. Il che ha una certa importanza, ad esempio, per la scelta del tipo di chiusura.

Per quanto riguarda le doti genetiche, una classificazione americana divide la popolazione in tre categorie: supertaster, normal taster e non taster. Il 50% percento della popolazione apparterrebbe alla categoria mediana, mentre le altre due categorie raccoglierebbero rispettivamente il 25%. Le donne hanno capacità percettive di norma superiori agli uomini. Questa classificazione si basa in particolare sulla percezione di uno dei gusti fondamentali, l’amaro. Si è utilizzata una sostanza indice, Il propiltiouracile (PROP), misurandone la percezione a dosi crescenti in una soluzione. L’attitudine sviluppata alla percezione dell’amaro (ma non solo di esso) sarebbe legata alla densità delle papille fungiformi sulla lingua. Sulla base di tali considerazioni dovremmo concludere che chi ama i vini “importanti”, quindi ricchi di tannini, che hanno una nota amara nel sapore, non sono “supertaster”. Una conclusione paradossale.

“Rottamare” i degustatori? 

L’esperienza di un degustatore, che abbia assaggiato diverse migliaia di vini, non ha influenza sulla sensibilità dei recettori, che è di natura genetica, mentre ne ha, ovviamente, sulla sua formazione “culturale”, sull’evoluzione del suo gusto e sull’allenamento della memoria e del linguaggio. Inoltre le facoltà recettive diminuiscono con l’età, in modo lento e progressivo, più o meno a partire dai cinquanta anni, accelerando dopo i sessanta, non diversamente da quanto avviene con la vista, con l’udito e con la memoria. La cosa varia a seconda degli individui e la pratica assidua prolunga le attitudini nel tempo: nondimeno per chi, come me, i cinquanta li ha passati si tratta di una verità piuttosto seccante... In un panel l’esperienza di qualche degustatore più anziano è sicuramente utile, ma bisogna fare largo ai giovani e soprattutto alle donne, che hanno un naso migliore del nostro e un palato più sensibile. Esistono test statistici di valutazione dei giudici, che si possono trovare nei manuali di analisi sensoriale. Da farsi, eventualmente, a loro insaputa.

Supernasi 

Non sono un “master of wine” e non mi ritengo un degustatore di particolare abilità anche se ho avuto l’onore di far parte di commissioni internazionali molto prestigiose, come quelle di Radici del Sud e del concorso internazionale di Sydney. Forse non ne avevo la qualifica: trovo infatti difficile indicare più di tre o quattro descrittori olfattivi in un vino, a meno che non si tratti di vini di straordinaria complessità. Sicuramente ci sono persone in grado di rilevarne e di descriverne di più. A parte il fatto che i descrittori analogici (banana, fiori bianchi etc.) raramente corrispondono esattamente alle molecole che si trovano nella materia che si usa come termine di paragone, sono anche convinto che nelle descrizioni molto articolate che si ascoltano o si leggono ci sia spesso un gran lavoro di fantasia: più per autosuggestione che per malafede. Fino ad arrivare alle iperboli barocche di certi “wine writer”, degne di un Cyrano de Bergerac, che infatti, non a caso, aveva un gran bel “pennacchio”.

Ma quando si passa dalle parole alla realtà di parametri misurabili molte cose cambiano. Degustando, per esempio, un Barolo, la pretesa di riconoscere, in un crescente scala di difficoltà, la botte grande o piccola, nuova o usata, la presenza di vitigni diversi dal Nebbiolo, anche in minime percentuali, il produttore, l’annata, il cru di provenienza, l’uso o meno di lieviti selezionati o addirittura il ceppo di lievito, il fornitore delle botti o altri particolari sempre più specifici è destinata ad assicurare a chiunque, o quasi, un brutta figura in una qualunque degustazione cieca, cioè senza aver prima visto l’etichetta. Questo spiega perché le degustazioni cieche, e in generale le tecniche di analisi sensoriale, siano in genere amate da commentatori e blogger in proporzione inversa alla loro autostima. Sulle previsioni relative alla parabola qualitativa nel tempo, del tipo “bevetelo tra 10 anni, tra 5 anni, tra 25 anni”, si può dire quello che si vuole tanto nessuno se ne ricorderà, ma naturalmente è un esercizio più che lecito e quelli bravi in questo caso non sbagliano di molto. In effetti l’enologo Michel Rolland lo ha detto chiaro e tondo: se vuoi fare bella figura, in una degustazione cieca, stai zitto. Ipse dixit.

 

VALVERT: Aspettate. Vado a complimentargli della sua faccia il vanto. Voi! Voi avete un naso… che è grande. Tanto!
CYRANO: Tanto.
VALVERT: Ha!
CYRANO: Basta?
VALVERT: Sì.
CYRANO: Ah no. Non è molto, messere. Ce n'erano, oh Dio, ce n'erano a volere. Variando il tono dire … Per esempio, sentite: Aggressivo - se avessi per naso un monolite io me l'abbatterei sulla pubblica piazza. Amichevole - deve sguazzarvi nella tazza, munitevi di giara quando voleste bere. Descrittivo - è una rocca, è un picco, è un belvedere, che dico un belvedere, penisola, altroché. Curioso - a cosa serve quell'oblungo canapé? Nasconde uno scrittoio? Oppure un portaombrelli? Grazioso - Amate forse a tal punto gli uccelli che padre, sposo e amante, offrite una torretta perché vi si ristorino dal becco alla zampetta? Catastrofico - quando, signore, voi pipate, gli sbuffi dal naso vengon fuori a folate, non vi gridano intorno: "S'è incendiato il camino"? Cortese - se la testa vi inciampa in quel gradino, attento a non cadere e lasciarci le cuoia. Dolce - dovete alzarvi una minima tettoia, se no il color nasale al sole si sbiadisce. Saggio - "Solo una bestia," Aristofane ammonisce, "chiamata ippocampelefantocamaleonte, può avere tanta carne sull'osso sotto fronte." Drammatico - è un Mar Rosso, quando ha l'emorragia. Ammirativo - oh, insegna di gran profumeria! Lirico - è una fontana, e voi siete Tritone? Naif - il monumento quand'è in esposizione? Militaresca - carica con la cavalleria! Pratico - lo infiliamo in qualche lotteria? Non v'è dubbio, signore, sarà il premio più grosso. E parodiando - Piramo, piangente a più non posso: "Ecco quel naso che del volto del padrone distrusse l'armonia! Ne arrossisce il fellone!" Ecco che cosa più o meno avrei sentito se di lettere e spirito foste stato unito. Ma di spirito voi, bel saccone di pelle, non ne aveste un sol alito, e di lettere quelle con cui si scrive la parola "Scarafaggio". Aveste per ipotesi avuto poi il coraggio di provocarmi in pubblico, in piena galleria, servendovi di simile, amara allegoria, non sareste riuscito a balbettar l'inizio della metà di un suono, perché io mi delizio di dirmele da me, facendone anche incetta, ma non permetto mai che un altro si permetta.
(E. Rostand, Cyrano de Bergerac, atto I, traduzione di O. Lionello)
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Come è amaro l’Amarone altrui

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Tuoni, fulmini, pioggia e grandine in maggio sulla Valpolicella. Dal cielo, ma non solo. Una decisione del Consorzio di Tutela sulla modifica del disciplinare di produzione ha scatenato altri fenomeni temporaleschi, determinando una spaccatura tra i produttori.

L’Amarone è un vino di successo, la produzione è andata aumentando in modo esponenziale negli ultimi anni, attraverso un’espansione dei vigneti , ma soprattutto destinando quote crescenti di uve all’appassimento, anche in zone dove questa tradizione era meno diffusa. L’utilizzo di supporti tecnologici un tempo non disponibili, cioè le celle di forzatura, ha scuramente reso questo procedimento più facile, più sicuro nei risultati ed anche più facilmente applicabile a uve con caratteristiche meno uniformi di quelle richieste un tempo.  Il disciplinare dell’Amarone, del 1968, recita:

1) Le condizioni ambientali e di coltura dei vigneti destinati alla produzione dei vini della denominazione di origine controllata e garantita “Amarone della Valpolicella” devono essere quelle tradizionali della zona e, comunque, atte a conferire alle uve ed al vino derivato le specifiche caratteristiche.
2) Pertanto sono da escludere, in ogni caso, ai fini dell’idoneità alla produzione dei vini di cui all’articolo 1, i vigneti impiantati su terreni freschi, situati in pianura o nei fondovalle.

Il CdA del Consorzio di Tutela ha deciso di sopprimere il comma 2. Questi due commi rappresentano una specie di mantra, regolarmente ripetuto in centinaia di disciplinari italiani, e generalmente inapplicato. Perché? I motivi sono diversi: la preesistenza di vigneti che non soddisfacevano quelle caratteristiche ma “sembrava brutto” escludere; le pressioni politiche degli assessori sui funzionari affinché chiudessero un occhio, o entrambi;  ma, soprattutto, l’enorme difficoltà di tracciare una linea chiara e netta tra ciò che è fondovalle, pianura, terreno fresco, e ciò che non lo è. Si cominciano ad autorizzare i casi incerti e, poco per volta, il confine si sposta sempre più avanti, con il risultato che quei due commi, soprattutto il secondo, diventano carta straccia. Poi cambiano non le regole, ma i controllori e i sistemi di controllo, qualcuno si accorge dell’anomalia e la grana scoppia. A questo punto ci sono due strade: rifare gli albi applicando alla lettera la regola ed escludendo i vigneti che non la soddisfano, oppure cambiare la regola, considerando quella frase un "vizio di forma" come ha dichiarato, invero piuttosto arditamente, il presidente del Consorzio Marchesini. La seconda soluzione è la più semplice. La prima è non solo difficile, ma impossibile. Primo, perché per applicare la regola (ammesso che sia una regola giusta: l’equivalenza collina=qualità e pianura=qualità inferiore sembra oggettivamente un po’ troppo semplificatoria) occorre farla uscire dalla vaghezza e fissare parametri di misura molto precisi.

Cosa impossibile all’epoca in cui furono scritti i disciplinari (1968), ma forse possibile oggi, grazie ai modelli digitali tridimensionali del territorio, che per ogni particella possono fornire dati quali altitudine, pendenza, esposizione, radiazione solare e distanza dai corpi d’acqua principali. Combinando tutti questi elementi e sovrapponendoli, eventualmente, a una carta geopedologica (i terreni freschi), si potrebbe arrivare a una ragionevole zonazione che consenta di dire chi è dentro e chi è fuori. Ma con effetto non retroattivo.  Infatti, chi ha autorizzato quei vigneti che erano fuori dalla regola come se la cava? Bisogna segnalarlo alla magistratura? E i vini finora venduti, o tuttora in giacenza, come DOCG, senza averne diritto se applichiamo in modo pedissequo il mantra del comma 2? Vanno sequestrati e sanzionati? Non se ne esce così semplicemente. 

Per questo, pur comprendendo, ed anzi condividendo, le ragioni di chi difende il concetto di fondo che ispirò quel disciplinare, e che per questo polemizza contro le decisioni del Consorzio (il gruppo le Famiglie dell’Amarone dell'Arte ed altri), credo che sia necessario raffreddare le polveri e riprendere la discussione in modo più pacato. Non spetta a me dare consigli ai produttore della Valpolicella ma mi permetto di esprimere un paio di opinioni. Primo, uscire dai Consorzi (al plurale, perché vale per tutti e per tutta Italia) non serve a niente, se non a rafforzare le posizioni di chi la pensa diversamente da noi, e che, a maggior ragione, prenderà senza di noi le decisioni che riguardano tutta la denominazione. Secondo, partire dai dati della realtà quale essa è, non quale vorremo che fosse, aiuta a capire gli errori,  se ci sono stati, e a non ripeterli.

Infine, è opportuno stabilire regole nuove, finalmente chiare e non ambigue, verificabili con gli strumenti oggi disponibili, per tutti i nuovi impianti, sulla base di una zonazione qualitativa del territorio un po’ più articolata e tecnicamente motivata della semplice distinzione collina/pedemontana/pianura, senza che questo penalizzi gli impianti già esistenti e già autorizzati alla produzione di Amarone (e non vale certo solo per l’Amarone). Anche questa scelta non sarà indolore e non potrà accontentare tutti, ma su questa materia i conflitti non si possono evitare, ed anzi cercare di evitarli è sbagliato: i conflitti vanno gestiti, mantenendoli su un piano di rispetto reciproco, e impedendo che degenerino in astio, delazione, vendetta. I Consorzi devono fare questo. Ognuno deve prendersi le sue responsabilità senza farsi prendere dalla tentazione di “mollare tutto e fare da solo”, perché la denominazione è un patrimonio collettivo, da soli non si va da nessuna parte. 

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