Il fantasma della libertà (di impianto)

Millevigne

Il cammino verso la liberalizzazione degli impianti viticoli, prevista in Europa per il 2015, ha avuto una battuta d’arresto. Lo ha riferito il Commissario Ciolos da Cipro, dove erano riuniti i ministri dell’agricoltura della UE: “Non ci sarà un ritorno al passato e neppure una liberalizzazione completa, ma una nuova regolamentazione”.

A sostenere la fine del blocco a favore di una maggiore libertà di impresa erano e sono quasi tutta l’industria vinicola e una minoranza di imprese agricole imbottigliatrici, sostenendo che costituisce un freno allo sviluppo economico delle aziende leader e del settore in generale. Ad esse si aggiungono associazioni di consumatori, che vedono nel blocco un artificio per sostenere il prezzo del vino, e i paesi non produttori del nord, che, per cultura, non hanno mai visto di buon occhio qualunque strumento di controllo dell’offerta.

Favorevole al permanere del blocco sono i paesi mediterranei, la gran maggioranza della parte agricola, sia individuale che cooperativa, ma anche una parte della piccola impresa di trasformazione che opera sui segmenti più alti del mercato. Essi temono che liberalizzare avrebbe come conseguenze una deriva a favore delle grandi aziende, la decimazione dei piccoli viticoltori (il “vignaiolo” come normalmente lo intendiamo non è un’esclusiva dell’Europa, ma quasi), il crollo dei prezzi e lo slittamento della viticoltura verso zone di pianura, con detrimento dell’immagine del vino europeo e creazione di grandi sacche di nuova povertà nelle zone rurali. Uno scenario troppo catastrofico? Forse: ma l’idea di fare un esperimento pericoloso stando dentro alla provetta ai vignaioli europei non sorride per niente, perciò vedono con favore il parziale ripensamento che viene da Bruxelles via Cipro.

In effetti quando ci si chiede cosa sia meglio per il “settore ” a volte si scorda che al suo interno operano operatori diversi, che svolgono ruoli diversi, e che hanno interessi in parte simili (che il vino si venda e si venda bene) e in parte diversi (che le uve e i vini sfusi valgano molto, oppure che valgano poco, a seconda se devo vendere oppure comprare) . Tra il produttore agricolo puro e il trasformatore/commerciante puro ci sono le aziende che sono l’uno e l’altro, e rappresentano una percentuale elevata del comparto. Altro elemento chiave è la rigidità della struttura produttiva. Una congiuntura favorevole dei prezzi all’ingrosso spinge le aziende a piantare vigneti, incoraggiate dall’industria, ma tali congiunture sono effimere, mentre un vigneto deve durare 30 anni o più per ammortizzare il capitale investito: il blocco, contingentando le superfici, riduce il rischio legato ad una possibile sovrapproduzione.

Se i vincoli da una parte sostengono il reddito degli agricoltori (un gioco che non sempre funziona in un mercato globale, visto che altrove vigono altre regole) e frenano gli speculatori, dall’altra pesano sulle imprese più dinamiche, il cui obiettivo non è sottopagare la materia prima ma espandere il proprio mercato, avendo le capacità per farlo. Il compromesso che pare emergere è quello di affidare alle forme organizzate dei produttori le decisioni relative. Per i vini a denominazione di origine l’interlocutore dovrebbe essere l’interprofessione, cioè i Consorzi di tutela. Di fatto già oggi alcuni Consorzi, in accordo con le Regioni, pongono limiti aggiuntivi a quelli già in essere per l’iscrizione alle denominazioni: ad esempio il divieto di riconversione verso una certa varietà, o di realizzare nuovi impianti con diritti acquisiti fuori zona. Dovrebbero essere limitazioni temporanee, legate a scenari non favorevoli di mercato o ai rischi di un’eccessiva rincorsa della domanda (come si è fatto, forse troppo tardi, per il Prosecco): ma talvolta questi tempi si dilatano verso l’eternità e questo rischia di ingessare troppo il comparto.

In ogni caso spostare questo difficile gioco di equilibrio all’interno della filiera pare effettivamente la strada più logica da seguire, anche se lascia aperti molti fronti di discussione: dalla “sovranità” dei consorzi di tutela sulle denominazioni, alla rappresentatività delle diverse categorie al loro interno, fino al ruolo delle OP, le organizzazioni dei produttori che rappresentano solo la parte agricola ma che, per il vino, spesso è anche trasformatrice. Le denominazioni di origine sono un patrimonio culturale dell’Europa ed hanno, in questa questione, un ruolo chiave. Sono un patrimonio collettivo, che collettivamente va gestito, attraverso i consorzi di tutela, con tutte le difficoltà che questo comporta, compresa a volte la necessità di dare battaglia per far valere i propri diritti: ma, come in politica, chi si chiama fuori non può che subire le decisioni della maggioranza, riservandosi il solo diritto di criticarle.