Per me i vigneti ad alta densità sono una cagata pazzesca!
(cit. Paolo Villaggio, “Fantozzi”)
Art. da SLOW WINE. http://www.slowfood.it/slowine/per-me-i-vigneti-ad-alta-densita-sono-una-cagata-pazzesca/#.UsLKqNLuKSo
Credo che in alcuni corsi per sommelier, e finanche in alcuni corsi universitari, si insegni ancora che per fare vini di grande qualità bisogna piantare le viti molto vicine tra loro, stile Champagne (dove a volte si superano le 10.000 viti per ettaro), e fare pochi grappoli per ceppo. E’ la Corazzata Potemkin della viticoltura. Una superstizione radicata, di cui io stesso fui propagatore in gioventù, e ne porto il rimorso.
Il primo colpo alle mie convinzioni risale a un convegno internazionale sulla fisiologia della vite, negli anni ’90, a Heraklion, isola di Creta. Giovani ricercatori neozelandesi presentarono i dati di una ricerca da cui risultava che avevano migliorato la qualità di un Cabernet sauvignon mediocre con il diradamento. Ma non dei grappoli: delle viti, estirpandone una ogni due. Praticamente, per me, e per la mia cultura viticola alimentata da autorevoli maestri come Branas, Champagnol, Fregoni, un pugno in piena faccia. Mi parve una bufala, alla quale non detti troppo peso. Mi ci vollero anni per capire che, almeno in quel contesto ambientale, avevano ragione, e perché. Mi fu utile a ciò sia il “camminare”, come diceva Veronelli, diversi vigneti in Italia e nel mondo, sia l’incontro, reale o virtuale, con altri maestri che dicevano cose un po’ diverse, come Cesare Intrieri , Stefano Poni , Alain Carbonneau e soprattutto Richard Smart, l’iconoclasta, l’amico australiano. Senza dimenticare i sempre preziosi maestri dalle scarpe grosse, cioè i contadini anziani. In Piemonte, dove vivo, il messaggio dell’impianto “superfitto” non ha mai fatto molti proseliti, e il rinnovo degli impianti si è attestato sui valori tradizionali, non certo bassi, di 4000-5000 viti per ettaro, con differenze tra zone diverse che hanno precise giustificazioni nella natura dei suoli. In verità ci sono territori, e vitigni (tra cui Il Nebbiolo, almeno in alcuni ambienti, e l’Erbaluce) per i quali tali densità non corrispondono alla tradizione, e infatti si sono dimostrate eccessive e andrebbero riconsiderate. Uno dei cru di Gattinara più premiati dalla critica mondiale, ad esempio, è una vecchia vigna con meno di 2000 viti per ettaro. Per non parlare, cambiando regione, del Prosecco, dove densità anche solo medie appaiono, in molti terreni, controproducenti per la qualità del vino, a causa del formidabile vigore del vitigno, come spiegherò in seguito. In questo crescente scetticismo verso il dogma, mi trovai, tra i colleghi agronomi, piuttosto solo (oggi lo sono molto meno), finché non incontrai gli astri nascenti Simonit e Sirch. “Perché una vite possa vivere a lungo bisogna darle la possibilità di crescere lentamente e ramificare, la forma di una pianta non può restare uguale per cinquant’anni , e se cerchiamo di mantenerla tale con tagli brutali ne accorciamo la vita”, dixit Marco Simonit. Musica per le mie orecchie. Più recentemente Leonello Anello, il più noto consulente italiano di viticoltura biodinamica, mi ha offerto una nuova sponda: “questa idea che le viti a sviluppo ridotto esplorino il suolo più in profondità non combacia con la mia esperienza, la quale dice, piuttosto, il contrario. Infatti non consiglio mai sesti di impianto inferiori a 250 cm (tra i filari) per 80 (sulla fila, cioè 5000 viti per ettaro), ma anzi sono sempre più convinto che potremmo fare vini anche migliori aumentando ulteriormente tali distanze, al fine di assecondare meglio lo sviluppo naturale della pianta e ridurre le manipolazioni della chioma”.
A dispetto del titolo devo però ammettere che, in contesti ambientali opportuni e su alcuni vitigni (Borgogna e Pinot noir sono l’archetipo), gli impianti fitti sono validi e producono vini eccellenti (fino a 7-8000 viti per ettaro, limite che considero, almeno per l’Italia, la soglia del fanatismo), anche se costano molto, come impianto e come gestione. Quello che va respinto è il pensiero unico della viticoltura, per cui esiste un solo modello valido, dalla Mosella a Pantelleria, per climi diversi, suoli diversi, vitigni diversi, obiettivi enologici diversi e quel modello è l’impianto fitto, a spalliera o ad alberello (e non, per esempio, a pergola o a chioma libera).
Alla base della teoria dell’impianto fitto ci sono alcune ipotesi, che riassumo:
– la concorrenza tra le viti obbliga le radici a cercare spazio verso il basso piuttosto che lateralmente, e ad esplorare, come sistema vigneto, una massa molto grande di terreno. Questo ne aumenta la resistenza allo stress idrico e migliora l’interazione tra vite e suolo, esaltando così gli effetti del “terroir” legati alla matrice rocciosa. A quest’ultima idea sono particolarmente affezionati gli autori francesi.
– la concorrenza tra le viti riduce il vigore della pianta e la sua produzione di foglie e frutti, dando grappoli più piccoli, con acini più piccoli, e con maggiore concentrazione rispetto a viti più sviluppate e a chioma più espansa. Quindi uve qualitativamente superiori, in particolare per l’obiettivo di vini da invecchiamento o di fascia “superpremium”.
– In sostanza, la qualità, legata alla concentrazione di estratti nel frutto, sarebbe legata alla produzione “per ceppo”, e aumenterebbe in relazione inversa allo sviluppo della pianta e alla sua produzione di uva, almeno fino ad un certo limite, solitamente indicato in un chilo per pianta, o meno .
Premesso che maggiore concentrazione non sempre vuol dire maggiore qualità, e che i vini “superpremium” rappresentano meno dello 0,5 % del vino, che ne direste di un vino Montepulciano d’Abruzzo che ha questi dati analitici: alcool 16 gradi (naturali), estratto secco 41 per mille, 35 punti colore (somma DO 480+580 nm). Anche senza assaggiarlo tutto si può dire, meno che sia un vino “diluito”: ha il problema opposto. Viene da un vigneto a tendone, con 1600 viti per ettaro e una produzione di 110 quintali per ettaro. Certo siamo lontani dalle 30 e più tonnellate/ha di certi impianti irrigui di pianura, ma anche lontanissimi dal chilo (o del mezzo chilo) per pianta di cui si favoleggia come “carico di rottura”. Qui ogni pianta produce oltre 6 chili di uva. Ma in certi vigneti antichi dell’Irpinia ci sono piante monumentali, con multipli “bracci” che si estendono su ampie superfici, che producono vini superlativi da produzioni di molte decine di chili per pianta. Su un articolo recentemente pubblicato su una rivista tecnica autorevoli colleghi, un po’ preoccupati per una possibile deriva della corazzata, scrivono: “La Napa Valley e la Toscana degli anni 1970-1980 ci forniscono, entrambe, una sufficiente esperienza sul concetto di viti espanse e sulla qualità che si produceva allora”. Grande. Infatti quando il Cabernet di Stag’s Leap vinse il celebre Wine Challenge di Parigi nel 1975, battendo in degustazione cieca, a sorpresa assoluta, tutti i grand cru di Bordeaux e inaugurando la grande stagione del vino californiano, il suo vigneto aveva 2000 viti per ettaro: i bordolesi, i grandi sconfitti, quattro volte tanto. Ma per la California di allora 2000 ceppi erano già molti: si veniva dalla tradizione di aridocoltura (cioè senza irrigazione) dei pionieri, a bassissima densità, perché l’aridocoltura, da che mondo è mondo, che si coltivi il mais, il sorgo, le zucche o la vite, è un’agricoltura dove si pianta “rado”, allo scopo di ridurre i consumi idrici. Purtroppo la mania emulativa francofila dell’infittimento esagerato ha contagiato anche i produttori americani (malgrado i richiami contrari della sempre meno ascoltata Università di Davis, come mi confidava tempo fa con delusione il prof. Andy Walker) , ai quali però la natura sta nuovamente spiegando, a loro spese, la diversità tra La Côte d’Or e la Napa Valley.
In sostanza la teoria della produzione per ceppo come parametro di qualità non è campata in aria, ma è una semplificazione grossolana, che non si può declinare in una ricetta universale. “E’ la vite che ti dice come vuole stare, e la mia vuole stare così” soleva dire Edoardo Valentini a chi gli suggeriva di trasformare i suoi vigneti a pergola abruzzese in forme più “moderne”. I suoi vini gli hanno sempre dato ragione, e continuano a farlo anche ora che Edoardo non c’è più.
(continua domani sempre sul nostro sito, restate sintonizzati!)
Foto tratte da foodie.it e wakeupnews.eu