Anthony luke Photography
Anthony luke Photography

Per me i vigneti ad alta densità sono una cagata pazzesca! (II parte)

Slow Wine

(cit.  Paolo Villaggio, “Fantozzi”) Dopo il bel pezzo di ieri, ecco le conclusioni.

I concetti di vigore ed equilibrio

Un vigneto è in equilibrio quando lo sono le singole viti. E una vite è in equilibrio (da un punto di vista agronomico, cioè da quello nostro) quando la sua produzione di rami, foglie e grappoli per vite, o, meglio, per metro lineare di filare, o per metro quadro nel caso della pergola o dell’alberello, non è né troppo scarsa (caso raro) né troppo abbondante (caso frequente) e c’è un corretto rapporto tra foglie (dove avviene la fotosintesi) e frutto, indicativamente di 1,5 mq di foglie illuminate per kg di uva. La misura del vigore e/o dell’equilibrio di un vigneto o di una pianta si può fare sulla base di pochi, semplici parametri. Senza entrare nel dettaglio, quando la luce e l’aria circolano all’interno di una chioma di vite, senza che ciò sia dovuto a pesanti interventi esterni di taglio e sfogliatura, c’è equilibrio; al contrario, un materasso di foglie che fa ombra ai frutti, e al mattino gronda rugiada, è segno di squilibrio e porta malattie, da contrastare con l’aiuto della chimica, e difficilmente se ne ricavano buoni vini, soprattutto rossi.

In effetti lo scopo di piantare fitto sarebbe proprio quello di ridurre il vigore per effetto della concorrenza inter-individuo. Ma riuscirci o meno dipende dal contesto ambientale, dal vitigno, dal portainnesto: spesso si ottiene il risultato opposto. Questo perché il vigore di una pianta è determinato del vigore di ogni singolo germoglio (la sua lunghezza, le sue ramificazioni, la dimensione delle foglie), il quale, a sua volta, è inversamente proporzionale al numero di gemme lasciate sulla pianta in fase di potatura.

La vite è una liana, che in natura cresce in zone umide e si arrampica sugli alberi fino a decine di metri di altezza: si può capire, intuitivamente, quale forzatura della sua natura sia costringerla in un “campo di concentramento” (Carlo Cambi). Piantando molto fitto si è costretti a lasciare poche gemme e su ognuna di queste si rischia di scaricare un eccesso di vigore: è come se la pianta reagisse con forza a una mutilazione per ricostruire il suo corpo, come un’Idra mitologica. L’effetto di concorrenza tra le piante vicine dovrebbe, in teoria, bilanciare questo squilibrio: ma, in pratica, questo succede solo in alcune situazioni, oppure dopo molti anni. E non succede con vitigni vigorosi, portinnesti vigorosi, climi caldi, terreni fertili che in primavera trattengono l’acqua. Il risultato può essere quindi quello di dar vita a una foresta tropicale, da contenere con frequenti cimature meccaniche, che, se la disponibilità idrica è buona, provocano ritardo di maturazione (in un solo caso ciò può essere positivo, almeno a breve termine: quello di vitigni precoci in climi troppo caldi, come il Merlot in Sicilia, possibilmente irriguo). Infatti l’acqua consumata è direttamente proporzionale alla quantità di foglie che traspirano per unità di superficie. Il fatto che negli impianti fitti ci sia maggiore sviluppo radicale per metro cubo (ammesso che sia sempre vero) può non bastare a compensare il maggior consumo. E’ una semplificazione, perché la superficie fogliare di un vigneto non dipende solo dalla densità di impianto: ma, in linea generale, filari più stretti vuol dire più foglie e più consumo.

La viticoltura post-fillosserica, su piede americano, ha accentuato il lussureggiamento: i portinnesti resistenti al calcare, e quindi adatti a gran parte della viticoltura italiana collinare e di pregio, sono anche, più o meno, vigorosi (peraltro quelli deboli si dimostrano anche, spesso, meno longevi). Aggiungiamo il riscaldamento del clima, che, negli impianti fitti e a chioma bassa, allo stress idrico aggiunge spesso lo stress termico, perché nelle ore più calde la temperatura cresce avvicinandosi dal suolo (l’opposto accade di notte) fino a “cuocere”, nel caso di eccessi termici, precursori aromatici e colore nel frutto.

Francia, il grande equivoco

I sostenitori dell’impianto fitto additano a modello il nord della Francia: la Borgogna, la Champagne. Dimenticando di osservare che, dal Midi alla Champagne, le densità crescono in modo proporzionale alla latitudine. A parità di altri fattori, lo sviluppo della chioma è legato alle temperature primaverili. In Champagne si avvicinano tra loro le viti perché la vegetazione trova limitazioni naturali, e i filari perché la produzione di uva in un vigneto a spalliera si misura, grosso modo, in kg per metro di filare: più filari per ettaro vogliono dire più produzione. Quindi non si pianta fitto per migliorare la qualità, ma per fare più uva.

So che molti non ci crederanno, e allora porto un esempio: mentre l’Italia erogava contributi comunitari per la “ristrutturazione dei vigneti” (che doveva servire a migliorare la qualità senza aumentare la produzione) mettendo come condizione, almeno in alcune regioni, l’infittimento degli impianti, nel Beaujolais si assegnava lo stesso contributo comunitario con il vincolo esattamente opposto: ridurre la densità di impianto e assicurare un interfilare non più stretto di 2 metri.

In ogni caso l’impianto fitto, anche dove può essere giustificato da condizioni locali e obiettivi enologici, è un modello di viticoltura intensiva, che richiede elevati input energetici , idrici (se non provvede Giove), finanziari e fitosanitari, e le piante possono avere vita più breve.

Concludendo (per modo di dire, perché questa è una discussione che non finirà mai) voglio ringraziare il collega e amico Riccardo Castaldi, con cui ho spesso ragionato e condiviso pensieri ed esperienze su questo argomento, oltre agli altri colleghi e maestri citati.

Foto lefigaro.fr