E se invece del MCR ci mettessimo l'acqua?
ditoriale su Millevigne 3/2017
E SE INVECE DEL M.C.R. CI METTESSIMO L'ACQUA?
Dell’annata memorabile, e non in senso positivo, 2017 si è parlato e straparlato. Al momento possiamo dire con certezza che è stata un’annata magra, pare la più scarsa del dopoguerra, con cali generalizzati del 20-25 % rispetto alla media. Sulla qualità occorre essere prudenti e non generalizzare.
La sanità delle uve era ovunque eccellente: al nord, e sulle raccolte tardive anche al sud, le piogge e i cali termici di settembre hanno sicuramente giovato. Avremo alcuni ottimi vini, soprattutto dai vigneti più vecchi, che meno hanno sofferto lo stress idrico e i picchi anomali di temperatura, e dalle posizioni meno assolate; ne avremo altri che si dovranno in qualche modo correggere in cantina, con tagli e altre operazioni, per dar loro l’equilibrio compositivo che mancava alle uve.
In molti casi il dato eclatante è l’eccesso di concentrazione zuccherina, dovuta in parte alla perdita di volume dell’acino per disidratazione.
In California, quando succede questo, e succede spesso, è autorizzata l’aggiunta di acqua al mosto, mentre in Europa è reato: il che non vuol dire esattamente che non si faccia mai, anche se l’analisi degli isotopi dell’ossigeno rivela abbastanza facilmente la frode, come pure quella del cloro e dei cloruri se si usa acqua di acquedotto non declorata (e ci sono anche altri metodi innovativi).
La legge americana è ambigua: “L’aggiunta di acqua, in volume superiore al minimo necessario per facilitare la normale fermentazione, non può essere utilizzata nel processo di trasformazione di qualsiasi vino d'uva”. Quale sia questo minimo necessario non è specificato. E poi dicono che le nostre leggi sono fatte male. 16 gradi di alcol potenziale è di solito considerato il limite perché i lieviti possano portare a secco una fermentazione, ma in realtà questo dato non è scritto da nessuna parte e sappiamo bene che spesso si hanno arresti a gradazioni più basse. Mi hanno raccontato di casi in cui, per “fare il vino che piace a Parker” il mosto si allunga con l’acqua, si porta a secco, poi il vino viene concentrato, infine dealcolato e arrotondato con un residuo zuccherino… roba da camicia di forza.
Ma anche una predicatrice del vino “naturale” (spiacente, non rinuncio alle virgolette) come Alice Feiring, sul suo blog sul New York Times, racconta di aver accettato di aggiungere acqua a un mosto di Sagrantino da 26 Brix, su consiglio dal suo partner enologo Kevin Hamel, come “il minore dei mali”, considerato anche il non uso né di lieviti selezionati né di sali di azoto per alimentarli: pratiche entrambe giudicate quindi più invasive del rubinetto dell’acquedotto, teoria che mi fa sorridere un po’.
I miei amici francesi del Vin Naturel mi hanno condannato, dicendomi che non ho ascoltato quello che le uve volevano fare – racconta Alice - Ho scritto al produttore umbro di Sagrantino Filippo Antonelli per ottenere una guida e un'assoluzione. Ha risposto: "In Italia andiamo in galera se aggiungiamo acqua al vino, quindi non lo faccio mai. Se in California puoi farlo, al tuo posto lo farei."
In verità non credo che autorizzare l’annacquamento in Europa sarebbe una buona idea: se non altro perché, se aprire il rubinetto diventa legale, gli abusi diventano molto difficili da controllare. In annate veramente eccezionali come questa, speriamo rare, l’ipotesi si potrebbe anche valutare, ma poi si rischia la fine che si è fatta con l‘arricchimento, in cui ogni annata, compresa questa, diventa eccezionale. In effetti, salvo casi particolari di uve grandinate, o di viti talmente provate dallo stress da aver subito un blocco di fotosintesi, l’arricchimento, in un anno come questo, ingenera il sospetto che, di fronte alla mancanza di prodotto e alla paura di perdere quote di mercato, qualcuno sia tentato non solo di usare l’acqua, ma di usarne tanta da richiedere la compensazione dello zucchero (e di altro). Un sospetto che sappiamo ben presente ai funzionari dell’ICQRF, che tutti continuiamo a chiamare Repressione Frodi.
Dove invece sarebbe utile copiare gli Americani è nell’uso ragionato dell’irrigazione a goccia, almeno nelle poche regioni italiane dove questa pratica, sdoganata dal MIPAF anche per i vini a DOC e DOCG, è ancora vista con avversione e sospetto. Un problema in viticoltura è che spesso l’acqua è disponibile dove meno servirebbe, e viceversa. Per questo sarebbe utile avviare un ragionamento su come conservare l’acqua che cade in eccesso in alcuni mesi, e manca in altri. Il cambiamento climatico ci sbatte in faccia l’aumento di tutti i fenomeni meteorologici estremi, e la necessità di mitigarne gli effetti non può più essere rimandata. Nei prossimi anni vedremo crescere la diffusione delle reti antigrandine e degli impianti a goccia. Ma non dimentichiamo che è la qualità del suolo, in particolare la sua dotazione organica, a fare la differenza nella capacità di trattenere l’acqua e rilasciarla lentamente. In molti casi abbiamo perso buona parte di questa capacità, per effetto di pratiche agronomiche sbagliate e che vanno ripensate.