Riscaldamento climatico e Moscato
- font size decrease font size increase font size
La viticoltura e il “global warming”
Il caso del Moscato
Maurizio Gily, settembre 2018
GRAFICO: l’indice di Winkler misura, in pratica, la quantità di calore che arriva sulla terra dal 1 aprile al 31 ottobre, periodo che corrisponde schematicamente al periodo di vegetazione della vite. Valori oltre 2000 sono stati finora considerati dalla bibliografia scientifica tipici di zone viticole “calde”. Dati misurati alla stazione di Moncalieri, presso Torino (Piemonte).
I due principali aspetti del cambiamento climatico in atto sono l’aumento medio delle temperature e l’aumento di tutti i fenomeni “estremi”: tempeste violente e piogge torrenziali, gelate tardive, grandine, periodi di prolungata siccità.
L’argomento non è certo nuovo. Si sono ipotizzati scenari catastrofici anche a breve termine: ricordo di aver letto su un giornale che “nel 2050 il Chianti si farà in Sassonia”. Una sciocchezza, perché al massimo in Sassonia si farà un vino rosso a base Sangiovese, ma mai un Chianti, visto che il Chianti è un territorio e rimane dove è.
Il punto è questo: i grandi e famosi territori viticoli del mondo non si possono “delocalizzare”. Il riscaldamento climatico è un dato di fatto e ci pone davanti a scenari nuovi. In viticoltura sono due i principali avvenimenti a cui stiamo assistendo in conseguenza del mutamento climatico. Uno è lo spostamento della viticoltura verso zone più fresche; l’altro è lo sforzo di adattamento a un clima più caldo nei territori della tradizione, che, per l’appunto, non si possono spostare, per cercare di mantenere caratteristiche dei vini familiari ai consumatori.
In Italia si piantano vigneti in quota, spesso dove la viticoltura in passato era stata abbandonata con lo spopolamento della montagna. Basti pensare che prima dell’ultima rivoluzione industriale in Abruzzo la provincia più vitata era L’Aquila, mentre in Piemonte le valli alpine, dal Cuneese all’Ossola, avevano complessivamente una superficie a vigneto maggiore di quanta se ne trovi oggi nelle Langhe.
Tra questi territori che la vite torna a colonizzare ci sono l’Alta Langa e la Val di Susa in Piemonte, il Casentino e la Garfagnana in Toscana, le prealpi venete, le valli aquilane in Abruzzo. Il fenomeno più “trendy” del momento è però in Sicilia, e parliamo dell’Etna.
La costante crescita del vigneto britannico, che supera ormai i duemila ettari, è un altro segno dei tempi, qui giocando non con l’altitudine ma con la latitudine. Anche grazie ai nuovi vitigni, frutto di incroci e resistenti alle malattie, si piantano oggi vigne in Danimarca, Svezia, Norvegia, Polonia. Non accadeva dal Medio Evo, allora si piantavano soprattutto per il vino da Messa (una battuta che circola a questo proposito è che la Svezia divenne protestante per non bere più quel vino!).
Un clima più caldo non a tutti “porta male”
E’ opinione diffusa che, almeno fino a questo momento, il cambiamento climatico sia stato più positivo che negativo, almeno per i vini rossi, per molte zone viticole: quelle a clima temperato o temperato-freddo, come la Germania, la Svizzera, il bordolese, la Nuova Zelanda. E’ vero che capita a volte di avere in cantina gradazioni alcoliche eccessive, ma, per contro, è diminuita fortemente l’incidenza di annate negative, fredde, con difficoltà di maturazione. Anche per le regioni del Nord Italia, come Piemonte e Veneto, è difficile dire se il cambiamento abbia portato più vantaggi o svantaggi; la maggioranza dei produttori e degli enologi pensano che, almeno fino ad oggi, non ci si debba lamentare troppo.
Negli anni ’80 ci fu un certo movimento di produttori piemontesi che chiedeva alla politica il diritto di zuccheraggio, spalleggiati anche dal più famoso eno-gastronomo italiano, Luigi Veronelli. Si considerava una discriminazione il fatto che in Francia si potessero arricchire i mosti con saccarosio mentre in Italia ci fosse l’obbligo di ricorrere, per l’arricchimento, a derivati dell’uva, cioè mosti concentrati per lo più di produzione meridionale, che venivano considerati di peggiore qualità e capaci di influenzare negativamente le caratteristiche dei vini. Senza entrare nel merito della validità di quella protesta, è sicuro che oggi sarebbe improbabile rivederla, perché l’arricchimento è diventato cosa rara, almeno per i vini di migliore qualità. Soprattutto sarebbe improbabile vedere alla testa della protesta i più autorevoli nomi del Piemonte vitivinicolo, come invece accadde allora. Perché se vendi un vino a 50 euro alla bottiglia o più non puoi ragionevolmente sostenere che per farlo hai bisogno dello zucchero! Ripensare a quell’episodio ci fa capire quanto sia cambiato il nostro mondo, e di questo cambiamento il riscaldamento climatico è solo un aspetto.
Conseguenze del riscaldamento
Il “troppo caldo” è un concetto relativo: non solo i vitigni mediterranei come Grenache, Negroamaro, Nero d’Avola, ma anche molti vitigni del Nord Italia come Corvina, Refosco, Barbera, Raboso, sopportano meglio dei cosiddetti “internazionali” (che in realtà vengono da climi freschi o temperati) gli eccessi termici. In effetti i teorizzatori del “cool climate” come fattore di qualità dei vini, come Peynaud e Jackson, hanno riferito sempre i loro studi a vitigni come Riesling, Pinot nero, Cabernet sauvignon. Il riscaldamento climatico accentua l’importanza di un corretto rapporto vitigno/ambiente.
Fatta quindi questa premessa sulla relatività del concetto di “troppo caldo”, resta il fatto che una stagione più calda della media comporta alcune conseguenze sulle caratteristiche delle uve, che possiamo così riassumere:
- aumento del grado zuccherino, quindi del grado alcolico del vino. Qui incide, oltre all’aumento della temperatura, anche l’aumento del tenore di anidride carbonica in atmosfera, che fa aumentare la fotosintesi.
- per le uve nere, disallineamento tra maturazione tecnologica (rapporto zuccheri e acidi) che è anticipata, e maturazione fenolica (cioè colore e tannini) che è ritardata. Questo significa che non possiamo far fronte al rischio di un eccesso di zucchero nell’uva semplicemente anticipando la vendemmia, perché raccoglieremmo uve non mature sotto altri aspetti. Mentre se attendiamo una completa maturazione della buccia e dei semi rischiamo di avere 15 o 16 gradi di alcol nel vino.
- Perdita di acidità, in particolare per la degradazione dell’acido malico. E’ un problema soprattutto per i vini bianchi, ma non risparmia alcuni rossi. Questo porta a rivalutare alcuni vitigni italiani per i quali l’acidità era in passato considerato un limite mentre oggi è un pregio, come Barbera, Refosco, Falanghina, Bombino bianco, Montepulciano.
- Perdita di alcuni precursori aromatici, quindi rischio di vini meno profumati. Su questo punto c’è da dire che non tutti gli aromi si comportano allo stesso modo. In particolare i norisoprenoidi, responsabili di aromi fruttati “tropicali”, ma anche di note di lampone e ciliegia, non temono troppo il caldo, e si avvantaggiano di una elevata luminosità. La luce è importante anche per i terpeni, aromi caratteristici dei vitigni aromatici come Moscato e Brachetto.
Il “troppo zucchero” ha anche altre cause
L’innalzamento del grado alcolico medio che si registra in alcune regioni italiane e francesi ha anche cause non climatiche, che riguardano la tecnica viticola. Una di queste è la selezione clonale. Un elevato grado zuccherino delle uve in passato era considerato un fattore positivo per la selezione. Ma, più ancora di questo, ha forse pesato l’aspetto sanitario: scartando dalla selezione le piante affette da virus si è migliorata l’efficienza della fotosintesi, e questo ha portato a un aumento di grado zuccherino nelle uve. Basti pensare che un’indagine degli anni ’80 sulla Barbera d’Asti aveva riscontrato su oltre l’80% delle viti il virus GLRV (Grape Leafroll Virus) che facendo arrossare anzitempo le foglie ne limitava la capacità fotosintetica, con conseguenze sia sul grado zuccherino che sull’acidità. Quasi tutti gli impianti effettuati negli anni successivi usarono cloni esenti da virus.
Altri fattori che hanno pesato sono il miglioramento della difesa fitosanitaria e, in qualche caso, la realizzazione di impianti ad alta densità, che può comportare anticipo di maturazione, almeno su suoli poveri (su suoli fertili può provocare il risultato opposto).
Piemonte, il caso Moscato
Alcuni enologi sostengono che le uve di Moscato negli ultimi anni facciano più fatica che in passato a raggiungere elevati livelli di qualità, in particolare per il contenuto di linalolo, il principale aroma del Moscato, e per la conservazione di un buon quadro acido. Si tende ad attribuire questa supposta perdita di qualità al cambiamento climatico. In effetti il Moscato sembra essere l’uva che, in Piemonte, soffre maggiormente gli effetti del “global warming”. Non è detto però che sia la sola causa di un certo declino qualitativo che sembra interessare almeno una parte della produzione.
In verità il Moscato, anche se matura piuttosto precocemente, e per questo è coltivato anche in regioni fredde, non è un vitigno di “climi freddi”: è anzi tipicamente un vitigno mediterraneo, proveniente probabilmente dalla Siria o dall’Egitto, e in ogni caso diffuso su tutte le sponde del Mediterraneo. Dunque non dovrebbe soffrire troppo il caldo. C’è da dire, per contro, che solo in Piemonte il Moscato viene vinificato con la tecnica della spumantizzazione, per produrre vini leggeri che ricercano soprattutto freschezza, mentre in altre regioni se ne ottengono vini secchi o dolci ad alta gradazione o vini fortificati. In Sicilia da anni sono prodotti vini secchi da pasto col Moscato bianco (zone di Siracusa e della Sicilia occidentale) e, soprattutto, con lo Zibibbo, altra uva aromatica, Moscato d’Alessandria, tipica delle zone calde.
I terpeni sono i principali responsabili degli aromi del Moscato, e tra questi, nel Moscato, domina il linalolo. I terpeni si trovano nell’uva principalmente in forma legata a una molecola di zucchero, glucosio o disaccaridi (terpeni glicosidati). Finché resta legato allo zucchero l’aroma non è percepibile come tale, in pratica è inodore. E’ il distacco dallo zucchero, governato da enzimi o dall’acidità del vino, che lo rende percepibile; ma una volta distaccato il linalolo libero rimane odoroso per un tempo piuttosto breve, finché non subisce ulteriori reazioni chimiche (catalisi operata dall’acidità del vino tramite lo ione idrogeno) che poco per volta (a volte passando per un altro terpene, l’alfa terpineolo) gli fanno perdere nuovamente le sue proprietà olfattive. Se un’acidità troppo bassa rende il Moscato d’Asti (o l’Asti) piatto e “corto” al gusto, per contro anche un’acidità troppo alta non è un fattore positivo perché, come ha spiegato in un recente convegno a Strevi il Prof. Rocco Di Stefano, un pH troppo basso (cioè un’acidità elevata) comporta un’accelerazione delle reazioni che portano all’idrolisi del linalolo glicosidato, e quindi alla sua liberazione, oltre alla trasformazione del libero in alfa terpineolo. Quindi un’esplosione di profumi nei vini molto giovani, ma una rapida perdita degli stessi durante la conservazione in bottiglia. In pratica, per avere una certa ricchezza di aromi nel Moscato, che non si spenga troppo velocemente durante la conservazione, è necessario che in bottiglia alcune reazioni continuino ad avvenire più lentamente possibile. E’ importante la temperatura di conservazione delle bottiglie: se non proprio una “catena del freddo”, è auspicabile una temperatura di conservazione non superiore a 10 - 15 gradi. L’aromaticità del Moscato è quindi legata in primo luogo alla quantità di terpeni presenti nell’uva: più ce ne sono, e più sono abbondanti sia la frazione libera, immediatamente percepibile, sia quella glicosidata, che potrà liberare nuove “ondate” di aromi nel tempo; in secondo luogo a una corretta acidità, e infine a una corretta conservazione in bottiglia. I terpeni nell’uva si accumulano durante la maturazione, raggiungono un picco poco prima della maturazione e poi cominciano a decrescere, per lo meno quelli in forma libera, soprattutto se la stagione decorre con alte temperature diurne e notturne. Che gli eccessi termici e lo stress idrico (in Piemonte non c’è irrigazione, se ne comincia timidamente a parlare solo oggi) possano incidere negativamente è sicuramente vero. Tra l’altro l’acino è anche soggetto a scottature se esposto direttamente al sole, in particolare se viene esposto tardivamente. Durante la sovramaturazione e l’eventuale appassimento i terpeni si accumulano tutti sotto forma glicosidata, e verranno liberati con lentezza. Questo spiega la maggiore longevità dei vini passiti da Moscato rispetto all’Asti.
Ma l’opinione di molti tecnici è che il riscaldamento climatico sia solo una parte del problema. Sebbene non ci siano prove scientifiche si ritiene, ad esempio, che la gestione del suolo possa svolgere un ruolo importante. La viticoltura del Moscato in Piemonte è totalmente collinare, spesso con elevate pendenze. Fino ad alcuni decenni fa le aziende erano a conduzione mista, quasi tutti i contadini avevano una piccola stalla e concimavano i vigneti con letame. E’ storia passata. Parliamo di suoli molto calcarei, scarsi di sostanza organica e fortemente soggetti all’erosione. Erosione vuol dire perdita di strato attivo di terreno, quindi aumento del rischio di stress idrico, e perdita di sostanza organica, non più restituita con l’apporto del letame: questo fatto di nuovo aumenta il rischio di stress, perché è soprattutto la sostanza organica che conferisce al terreno la capacità di trattenere l’acqua. Non è escluso che anche l’accumulo di terpeni nel frutto abbia una relazione diretta o indiretta con il contenuto di sostanza organica nei terreni, e con la presenza e abbondanza di micorrize, cioè di simbiosi tra le radici e alcuni funghi, che funzionano da estensione dell’apparato radicale. Negli ultimi anni si è diffusa la pratica dell’inerbimento dei vigneti. Questo è sicuramente positivo per limitare l’erosione, ma insufficiente per rinnovare la sostanza organica perduta e, in caso di prolungata siccità, può a sua volta aumentare lo stress idrico per una certa competizione (sebbene spesso sopravvalutata) esercitata dal cotico erboso. La concimazione chimica, in particolare con sali di potassio, può avere effetti negativi sul quadro acido, in quanto il potassio salifica l’acido tartarico.
Il singolo viticoltore può fare ben poco contro il riscaldamento climatico, qualcosa lo potrebbe l’umanità intera, ma è difficile essere ottimisti quando il presidente del paese maggior produttore di gas serra è un negazionista. Mentre il mondo va verso il disastro, possiamo solo sperare che il processo sia più lungo di quanto ipotizzano i più catastrofisti, che i Trump rinsaviscano, e che nuove tecnologie ci consentano di produrre più energia pulita, senza immettere gas serra in atmosfera.
Intanto, l’unica cosa che può fare il vignaiolo, oltre a piantare vigneti in zone più fredde, è usare gli strumenti agronomici che ha a disposizione per mitigare gli effetti del riscaldamento e dell’aumento di fenomeni estremi.
Il Piemonte notoriamente è una regione molto tradizionalista. Questo è un bene per certi aspetti, ma per altri lo rende più indifeso ai cambiamenti esterni, ai quali reagisce con lentezza. Dunque io penso che dovrebbe avere più coraggio e sperimentare adeguamenti tecnici della viticoltura per far fronte al cambiamento del clima, soprattutto se parliamo di Moscato. Ci sono strumenti che potrebbero funzionare ma richiedono sperimentazione e messa a punto. Ne cito alcuni:
- Aumentare la dotazione organica dei suoli, con l’uso di compost e del sovescio (interramento di erbe seminate ad hoc)
- esporre meno i grappoli alla luce diretta e ai picchi di calore. Rivedere le tecniche di manipolazione della chioma (potatura verde) e sperimentare sistemi a pergola, in alternativa alla tradizionale spalliera.
- approfondire gli studi sui fattori che influenzano il contenuto di terpeni nel frutto.
- basta con il tabù dell’irrigazione, che resiste ormai solo in Piemonte e in Francia. L’irrigazione a goccia, con volumi molto modesti, è uno strumento qualitativo, non è uno strumento di forzatura.