Vitigno, clone, biotipo
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Il significato preciso di queste categorie e i nuovi orizzonti
Pubblicato sulla rivista Merum e, in Italiano, sul sito Vinix
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Il significato preciso di queste categorie e i nuovi orizzonti
Pubblicato sulla rivista Merum e, in Italiano, sul sito Vinix
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Come valorizzare la qualità delle uve conferite a una cooperativa? Ce lo spiega la Cantina di Soave.
Millevigne, n. 3/2015
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"Cioè, praticamente lei non ha mai assaggiato la Sachertorte. Continuiamo così, facciamoci del male". La scena cult del film "Bianca" di Nanni Moretti è quella che mi sovviene e mi resta in mente al termine della degustazione di ben sette versioni di Recioto, proposta dagli amici della cantina di Negrar in Valpolicella, dove il Recioto è nato svariati secoli prima del suo discendente oggi più famoso: l'Amarone, battezzato nel 1936 proprio presso la cantina della Valpolicella, frutto di uno di quei dispetti microbiologici, tipici dei lieviti, che a volte fanno miracoli: fermentare quando non devono (nascita dell'Amarone), non fermentare quando devono (nascita dell'Asti spumante).
A proposito del Recioto, non si capisce come un vino tanto buono e con tanta storia alle spalle possa essere così poco conosciuto e apprezzato al di fuori del Veneto e addirittura in Veneto stesso, se non in provincia di Verona. Io stesso prima dello scorso settembre non ne conoscevo tutte le sfaccettatura, ignoravo ad esempio che esistesse una ormai rara tipologia spumante (nota invece in Svezia e Finlandia, i cui monopoli importano proprio quello della Cantina di Negrar), anche se la presenza delle bollicine era sicuramente un fatto comune nei vini dolci di un tempo. Vini ancora "vivi" a tutti gli effetti in un tempo in cui il concetto di stabilizzazione era teorico, o forse non esisteva proprio. Il dolce del Recioto non è mai sciropposo e melenso, grazie al nervo dei tannini, e l'appassimento insieme all'azione della muffa nobile ne enfatizzano la complessità aromatica. Anche per questi motivi è sicuramente riduttivo parlare del recioto come vino da dessert.
Se avessi fama di esperto di vini, che non ho, a Negrar mi sarei sentito inadeguato, con la mia poca conoscenza di questo prodotto. In verità i passiti dolci in generale non vivono un momento felicissimo sul mercato, e i prezzi che riescono a spuntare in genere non sono proporzionati alle bassissime rese e all'altissimo impegno di lavoro che richiedono. Per dirla tutta costa molto di più produrre un Recioto che un Brunello. Ma è noto che, a chi compra, dei costi di produzione non è mai importato nulla, il prezzo lo fa soltanto il gioco della domanda e dell'offerta. Produrre il Recioto, o altri passiti di alta qualità, è diventata quindi, più che un'attività imprenditoriale, una missione. E' la dimostrazione che il vino è sì business, ma, almeno in Italia, e almeno in alcune cantine, non è solo questo. Ricordo ancora le risate dei colleghi australiani ai quali spiegavo la tecnica dell'appassimento "al gancio", un uncino, un grappolo, che qualcuno ancora usa in Piemonte per l'Erbaluce (Caluso passito) foderando di uva i sottotetti.
I vini di questa categoria rappresentano storicamente la perla da offrire all'ospite importante, il sigillo di un accordo tra gentiluomini, e finanche un'arma segreta del seduttore. Torneranno ad esserlo, perché la storia del vino è una storia circolare. Perciò la parola d'ordine è resistere, e il Recioto in Valpolicella resiste. Non ha avuto l'esplosione mondiale dell'Amarone e del Ripasso, ma tiene le posizioni.
Ma perché oggi i vini dolci di qualità costano spesso meno di quanto dovrebbero e rappresentano una nicchia così piccola rispetto al totale? E' strano, se pensiamo che la maggior parte delle bibite che si bevono al mondo sono dolci: bevande gassate, succhi di frutta, cocktail, persino i "vermut" gli "amari" in cui si vuole sottolineare l'aspetto amaricante sono in effetti carichi di zucchero. Per giunta: analizzando i vini premiati in certi concorsi internazionali, presentati nella categoria dei vini secchi, spesso si scoprono grammi e grammi di zuccheri residui. Per non dire dello straordinario successo del Prosecco, altro vino decisamente "rotondo". In sostanza pare che lo zucchero nel vino piaccia solo, e anche molto, solo quando si nasconde, quando non è palesemente dichiarato ed evidente. E la cosa vale anche per molti distillati e per certe birre artigianali. Ma solo per il grande pubblico, perché poi i consumatori più esperti amano in genere i vini secchi, disdegnano quelli amabili e tornano ad apprezzare quelli dolci. Insomma lo zucchero o sia molto, o non ci sia. Misteri del vino.
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Basta avere una vigna e una bottiglia con il proprio nome in etichetta per definirsi vignaiolo? Parrebbe la classica questione di lana caprina, e tale sicuramente pare a Bruno Vespa, diventato di recente anche produttore di vino, con l’originale scelta di Riccardo Cotarella come consulente enologico.
Il noto giornalista televisivo è stato recentemente canzonato da alcuni “viticoltori digitali” su twitter per la scelta dell’account @VespaVignaioli. Il messaggio è chiaro: tu sei un giornalista con l’hobby del vino, non vai a potare, a zappare e a dare il verderame, ergo non sei un vignaiolo ma al massimo un gentiluomo di campagna a part-time. Con ottime relazioni personali che probabilmente ti renderanno più facile la cosa più difficile del vino, cioè venderlo.
Vespa (ma è davvero lui che twitta?) non l’ha presa bene e ha risposto piccato, con accuse di enosnobbismo (questa è bella), astio e livore. Personalmente non ho notato nessuna delle tre cose, ma la reazione dell'augusto portinaio di Porta a Porta, o di chi ne fa le veci, in fondo mi è piaciuta. Essa é indice di un desiderio sincero di far parte di una comunità, una specie di "passate la palla anche al bambino straniero".
Altri, al suo posto (mi viene in mente un altro nuovo “vignaiolo”, uno coi baffetti) avrebbero probabilmente ritenuto indegno abbassarsi al livello dei suoi critici: una sovrana e superiore indifferenza, al massimo una spruzzata di repellente per zanzare, avrebbero chiuso il discorso.
Vespa invece accetta il confronto con vignaioli veri come Luca Ferraro, Armin Kobler, Gianluca Morino, Roberto Porciello (tutti amici nostri ovviamente) e loro se ne stupiscono: non sono abituati a ricevere risposte ai loro mugugni; il contadino non si aspetta mai di essere ascoltato dai potenti (e che Vespa sia un potente non ci sono dubbi), neppure per esserne poi redarguito.
Perciò con sincera stima (almeno per il giornalista, per il produttore direi che è un po' presto) e un po’ di pazienza vorrei provare a spiegare a Bruno Vespa perché i vignaioli si sentono non dico offesi, ma leggermente contrariati dal suo definirsi vignaiolo.
Avvocati, giornalisti, ingegneri, agronomi hanno un ordine professionale che disciplina l’uso e l’abuso della qualifica (anche se nel caso degli agronomi la tutela è normalmente disattesa, anche sulla RAI): i vignaioli no. Quindi non è vietato a Bruno Vespa, proprietario di vigneti, definirsi vignaiolo.
Ma i vignaioli italiani, soprattutto negli ultimi anni, in un percorso parallelo a quello dei vignerons francesi (ricordo i convegni di Montpellier e di Montecatini “Vignerons d’Europe” di alcuni anni fa), hanno maturato qualcosa di simile a quella che Marx chiamava coscienza di classe. Per loro, ma anche per il dizionario italiano, essere vignaiolo ha un significato molto preciso: come l’artigiano, il vignaiolo è uno che partecipa direttamente e manualmente alla produzione, e lo fa per tutto il tempo della sua vita, salvo quello, che non è poco, che deve occupare a riempire scartoffie e a darsi da fare per il mondo per vendere il vino. Per lui ci sono poche domeniche e poche vacanze, molta fatica, molti affanni e, salvo un’esigua minoranza che ha avuto la fortuna di nascere in alcune zone privilegiate, pochi soldi. Ma nonostante tutto, anche se il contadino è per definizione un lamentatore, non sono affatto infelici, perché fanno quello che per loro è il più bel lavoro del mondo e ne sono orgogliosi. Ed è proprio per questo grandissimo orgoglio che se il Marchese de’ Frescobaldi si definisce un contadino, e Bruno Vespa si definisce un vignaiolo, il loro pensiero corre a un vecchio sketch di Totò (ma mi faccia il piacere!).
Ciò nonostante, sono sicuro che tra Vespa, che il vino lo ama davvero, e i vignaioli italiani ci sono e ci saranno storie di amicizia vera, anche se regolarmente punteggiate (caro Bruno, mettiti l’anima in pace) da battute e lazzi più o meno appuntiti.