Maurizio Gily

Maurizio Gily

Come è amaro l’Amarone altrui

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Tuoni, fulmini, pioggia e grandine in maggio sulla Valpolicella. Dal cielo, ma non solo. Una decisione del Consorzio di Tutela sulla modifica del disciplinare di produzione ha scatenato altri fenomeni temporaleschi, determinando una spaccatura tra i produttori.

L’Amarone è un vino di successo, la produzione è andata aumentando in modo esponenziale negli ultimi anni, attraverso un’espansione dei vigneti , ma soprattutto destinando quote crescenti di uve all’appassimento, anche in zone dove questa tradizione era meno diffusa. L’utilizzo di supporti tecnologici un tempo non disponibili, cioè le celle di forzatura, ha scuramente reso questo procedimento più facile, più sicuro nei risultati ed anche più facilmente applicabile a uve con caratteristiche meno uniformi di quelle richieste un tempo.  Il disciplinare dell’Amarone, del 1968, recita:

1) Le condizioni ambientali e di coltura dei vigneti destinati alla produzione dei vini della denominazione di origine controllata e garantita “Amarone della Valpolicella” devono essere quelle tradizionali della zona e, comunque, atte a conferire alle uve ed al vino derivato le specifiche caratteristiche.
2) Pertanto sono da escludere, in ogni caso, ai fini dell’idoneità alla produzione dei vini di cui all’articolo 1, i vigneti impiantati su terreni freschi, situati in pianura o nei fondovalle.

Il CdA del Consorzio di Tutela ha deciso di sopprimere il comma 2. Questi due commi rappresentano una specie di mantra, regolarmente ripetuto in centinaia di disciplinari italiani, e generalmente inapplicato. Perché? I motivi sono diversi: la preesistenza di vigneti che non soddisfacevano quelle caratteristiche ma “sembrava brutto” escludere; le pressioni politiche degli assessori sui funzionari affinché chiudessero un occhio, o entrambi;  ma, soprattutto, l’enorme difficoltà di tracciare una linea chiara e netta tra ciò che è fondovalle, pianura, terreno fresco, e ciò che non lo è. Si cominciano ad autorizzare i casi incerti e, poco per volta, il confine si sposta sempre più avanti, con il risultato che quei due commi, soprattutto il secondo, diventano carta straccia. Poi cambiano non le regole, ma i controllori e i sistemi di controllo, qualcuno si accorge dell’anomalia e la grana scoppia. A questo punto ci sono due strade: rifare gli albi applicando alla lettera la regola ed escludendo i vigneti che non la soddisfano, oppure cambiare la regola, considerando quella frase un "vizio di forma" come ha dichiarato, invero piuttosto arditamente, il presidente del Consorzio Marchesini. La seconda soluzione è la più semplice. La prima è non solo difficile, ma impossibile. Primo, perché per applicare la regola (ammesso che sia una regola giusta: l’equivalenza collina=qualità e pianura=qualità inferiore sembra oggettivamente un po’ troppo semplificatoria) occorre farla uscire dalla vaghezza e fissare parametri di misura molto precisi.

Cosa impossibile all’epoca in cui furono scritti i disciplinari (1968), ma forse possibile oggi, grazie ai modelli digitali tridimensionali del territorio, che per ogni particella possono fornire dati quali altitudine, pendenza, esposizione, radiazione solare e distanza dai corpi d’acqua principali. Combinando tutti questi elementi e sovrapponendoli, eventualmente, a una carta geopedologica (i terreni freschi), si potrebbe arrivare a una ragionevole zonazione che consenta di dire chi è dentro e chi è fuori. Ma con effetto non retroattivo.  Infatti, chi ha autorizzato quei vigneti che erano fuori dalla regola come se la cava? Bisogna segnalarlo alla magistratura? E i vini finora venduti, o tuttora in giacenza, come DOCG, senza averne diritto se applichiamo in modo pedissequo il mantra del comma 2? Vanno sequestrati e sanzionati? Non se ne esce così semplicemente. 

Per questo, pur comprendendo, ed anzi condividendo, le ragioni di chi difende il concetto di fondo che ispirò quel disciplinare, e che per questo polemizza contro le decisioni del Consorzio (il gruppo le Famiglie dell’Amarone dell'Arte ed altri), credo che sia necessario raffreddare le polveri e riprendere la discussione in modo più pacato. Non spetta a me dare consigli ai produttore della Valpolicella ma mi permetto di esprimere un paio di opinioni. Primo, uscire dai Consorzi (al plurale, perché vale per tutti e per tutta Italia) non serve a niente, se non a rafforzare le posizioni di chi la pensa diversamente da noi, e che, a maggior ragione, prenderà senza di noi le decisioni che riguardano tutta la denominazione. Secondo, partire dai dati della realtà quale essa è, non quale vorremo che fosse, aiuta a capire gli errori,  se ci sono stati, e a non ripeterli.

Infine, è opportuno stabilire regole nuove, finalmente chiare e non ambigue, verificabili con gli strumenti oggi disponibili, per tutti i nuovi impianti, sulla base di una zonazione qualitativa del territorio un po’ più articolata e tecnicamente motivata della semplice distinzione collina/pedemontana/pianura, senza che questo penalizzi gli impianti già esistenti e già autorizzati alla produzione di Amarone (e non vale certo solo per l’Amarone). Anche questa scelta non sarà indolore e non potrà accontentare tutti, ma su questa materia i conflitti non si possono evitare, ed anzi cercare di evitarli è sbagliato: i conflitti vanno gestiti, mantenendoli su un piano di rispetto reciproco, e impedendo che degenerino in astio, delazione, vendetta. I Consorzi devono fare questo. Ognuno deve prendersi le sue responsabilità senza farsi prendere dalla tentazione di “mollare tutto e fare da solo”, perché la denominazione è un patrimonio collettivo, da soli non si va da nessuna parte. 

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Non dire gatto (o Sauvignon) se non l'hai nel sacco

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“Qui c’è del Sauvignon” disse il degustatore con superpoteri, sniffando il calice con collo proteso e occhi fissi in avanti, come il segugio che ha sentito la lepre.
Forse era vero, e forse no. La tecnica della vinificazione in riduzione, o in iper-riduzione, che ha reso famosi i Sauvignon blanc della Nuova Zelanda, trova ormai molti seguaci anche in Italia e ha la capacità di evidenziare alcuni aromi particolari, legati a composti odorosi dello zolfo (classici descrittori sono la foglia di pomodoro, di bosso, di fico, l’urina di gatto, da cui il titolo). I precursori aromatici tiolici sono massimamente rappresentati in quella varietà, tanto che questi odori sono avvertibili, nel Sauvignon, anche in vinificazioni più tradizionali; ma sono presenti, in tono minore, in molti altri vitigni bianchi, anche italiani, nei quali però i relativi aromi si esprimono, detto un po’ schematicamente, vinificando in assenza di ossigeno. Tra questi vitigni ci sono la Garganega, il Timorasso, il Pecorino, il Verdicchio, il Catarratto e molti altri. 

Recentemente ho partecipato   a una degustazione professionale di Soave nell’ambito del progetto “Soave in 3d”, proposto da Consorzio di Tutela come tentativo di focalizzare un aspetto di cui si parla molto ma per il quale manca un metro di misura: cioè l’aderenza di un vino al vitigno e al “terroir”.  Non voglio qui avventurarmi nella trattazione di questo tema, particolarmente scivoloso, ma cercare risposta alla seguente domanda: quanto può spaziare il ventaglio delle proposte stilistiche, in un vino a denominazione di origine controllata, perché rimanga riconoscibile come tale? E’ giusto che la DOP, in quanto marchio collettivo, consenta ai produttori una certa libertà di espressione, anche in relazione alle diversità dei territori. Ma fino a che punto può spingersi questa libertà senza creare nella testa del consumatore una gran confusione? E’ una domanda di particolare attualità, nell’anno in cui celebriamo il cinquantennio dell’istituzione in Italia della DOC. 

In Italia il “via libera” all’uso della denominazione protetta prevede la degustazione del campione da parte di una commissione di esperti. Mai come oggi i tecnici che compongono queste commissioni sono sottoposti a stressanti pressioni da parte di produttori e critici, e oggetto di accuse contrapposte: o di allargare troppo le maglie, ammettendo alla DOP vini di qualità e tipicità dubbie, o, al contrario, di penalizzare lo stile del produttore, bocciando un vino che non risponde ai canoni del disciplinare e della consuetudine, anche se spesso è apprezzato almeno da una parte del mercato. 
Non ho mai fatto parte di alcuna di queste commissioni e non me ne dolgo: infatti di fronte a molti vini mi sentirei in difficoltà.  Mai come oggi si stenta a trovare in alcuni membri della stessa famiglia un denominatore comune. Nel tentativo di occupare una propria nicchia di mercato, o semplicemente di personalizzare il proprio progetto enologico, i produttori di una certa DOP fanno il vino nei modi più diversi. Si va dai più radicali interpreti del vino cosiddetto “naturale”, che ripudiano ogni tecnologia, fino a quelli che di tecnologie fanno invece un uso molto raffinato, per non dire esasperato. Ed è difficile riconoscere, ai due estremi, la stessa tipologia di vino.  Affermare che la tecnologia allontani il vino dall’idea di terroir è una semplificazione, se non una mistificazione: infatti se è vero che l’applicazione pesante di alcune tecnologie può portare a una certa uniformazione, è anche vero che una deviazione organolettica grave (tutt’altro che rara nel vini che ripudiano ogni tecnologia) è altrettanto, o forse più, omologante e “anti-terroir”.  
Le DOC sono uno strumento di mercato, e occorre che alcune tendenze del mercato vengano, in qualche modo, recepite dai selezionatori. La storia del vino è una storia circolare, e se negli anni ottanta e novanta, per citare gli anni forse della massima fascinazione degli enologi per la tecnologia, una minima velatura, una volatile appena sopra la soglia di percezione, un vago sentore di “lievito morto” o di “pera stramatura” potevano giustificare una bocciatura, oggi forse non è più così, perché molte cantine hanno scelto di ridurre l’impatto di alcuni interventi e di alcuni additivi (i solfiti in particolare)  spinti dalla crescente richiesta di un mercato che chiede “naturalità”. E tuttavia dei limiti ci devono pur essere, sia in un senso, quello del vino “contadino” (e mi scuso con i tanti contadini che fanno vini eccellenti) che puzza di feccino o di aceto,  sia nell’altro, quello del vino “marziano”, come un Soave che sa di Sauvignon.

Il compito di dare qualche indirizzo in tal senso alle commissioni tecniche, non per insegnare ai gatti ad arrampicare, ma per togliere ai giudici un poco di imbarazzo,  appartiene, a mio avviso, alla comunità dei produttori (che dovrebbe essere rappresentata dai Consorzi di tutela), degli operatori economici, dei consumatori. E’, insomma, necessario che i giudici tengano conto dell’evoluzione del gusto, senza per questo cadere nell’errore di inseguire mode effimere, perché ciò non sarebbe coerente con il concetto stesso di denominazione di origine.  In sostanza chi giudica, a maggior ragione se il suo giudizio ha un valore legale, deve lasciare da parte ogni convinzione ferrea, interrogarsi con umiltà sul ruolo che è chiamato a svolgere e confrontarsi con il “mondo”. Dall’altra parte, quella della produzione, bisogna capire che non è affatto obbligatorio fare vini a DOC. Il produttore insofferente ad ogni disciplina può tranquillamente decidere di non utilizzarla, tanto più che il marchio di infamia di “vino da tavola” oramai è stato abolito, e con un po’ di fastidi burocratici in più si può anche scrivere l’annata. Alcuni produttori hanno scelto questa strada, anche perché stufi di vedersi bocciare il vino. Alcuni poi, fatta l’esperienza, rientrano nei ranghi, rendendosi conto che la DOC, con tutti i suoi problemi e la sua burocrazia, è comunque, per il consumatore di vini di qualità, una garanzia alla quale non rinuncia con tanta leggerezza, soprattutto se sull’etichetta non c’è scritto un nome famoso.

Per concludere, un produttore che si è visto bocciare, in prima battuta, la DOC per un suo vino (approvato poi nel girone di ritorno) mi ha trasmesso alcune note di due importatori, uno in USA, l’altro in Canada:

USA:
Per quanto riguarda la DOC, per noi solitamente non è tanto importante - abbiamo alcuni produttori francesi che hanno regolarmente lo stesso problema (compreso uno dei grandissimi nomi del vino francese), e noi ed i nostri clienti lo prendiamo come un segno che la commissione non capisce niente! (... o, spesso, vuol dire che è controllato dai negozianti che vogliono promuovere uno stile "industriale" bocciano i vini piuttosto tradizionali e/o naturali.)

 Canada:
we'll be dealing with a non-xxx (nome della denominazione) a back-label I have ordered the wine as yyy (nome di fantasia). The wine is quite good to me, no need to worry.”

Materia per riflettere mi pare che ce ne sia.

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Il digital divide (detto in italiano)

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ART. da Millevigne n°2 - 2013 (editoriale) - www.millevigne.it

Divide, terza persona del verbo dividere. Il “digitale” traccia nuovi confini. Sono confini geografici, tra zone che hanno accesso alla banda larga, o almeno a una adsl veloce,  e terra degli esclusi, di cui fanno parte molte zone rurali. Ma ci sono altri confini, e sono quelli tra le persone e tra le aziende  per le quali internet è un fondamentale strumento di lavoro, e altre per le quali è solo un mezzo di comunicazione che sostituisce altri più antichi. Spesso i due confini si sovrappongono per banali motivi tecnici, e questo è il digital divide detto in inglese (divaid). Che vuol dire esclusione, almeno parziale, di tanti cittadini e tante imprese da quell’accesso alla rete che, nel tentativo di colmare il ritardo accumulato negli anni precedenti, il governo Monti, con la sua agenda digitale, aveva per primo definito come un diritto di cittadinanza, abolendo nel contempo alcuni vincoli anacronistici che ostacolavano tale accesso, come l’obbligo di registrazione per gli accessi wi-fi (legge Pisanu).

Un laccio che comportava, ad esempio, qualche bel punto di competitività perduta per le aziende che operano nella ricettività, comprese le cantine con un punto vendita e degustazione (su questo numero un ottimo articolo di Katrin Walter su come “farsi trovare in rete”). Le cose stanno migliorando ma l’Italia è ancora molto indietro nelle infrastrutture digitali. Di questi problemi, e di altri, si è parlato recentemente in un incontro organizzato a Nizza Monferrato (#digitalbarbera), dove il presidente dei Produttori del Nizza, Gianluca Morino, ha candidato il suo territorio a snodo di una rivoluzione digitale del vino italiano. Morino è un indefesso “smanettatore” sui social network, soprattutto Twitter. Non è detto che rappresenti un modello per il vignaiolo del terzo millennio, e non ne ha l’ambizione. La sua è una passione, ma è un dato di fatto che i suoi 4500 “follower”, persone che da tutto il mondo leggono i suoi tweet, e le sue iniziative sulla rete (come #barbera2, progettata insieme a Monica Pisciella) hanno contribuito in maniera determinante a creare una solida rete commerciale per i suoi vini (che sono anche buoni, se no il discorso non vale) in tutto il mondo. Per questa via ha trovato partner commerciali a Taiwan, in Estonia e parte degli Stati Uniti e ancor più ha sviluppato il mercato italiano. “Non parlo quasi mai della mia cantina, ma delle stagioni, del lavoro e soprattutto del territorio” ha spiegato. Non celebrarsi, ma raccontare. Qualcuno si chiederà malignamente quando l’enologo Morino trovi il tempo per la campagna o la cantina: chissà perché un produttore che passa metà dell’anno, o più, all’estero per promuovere i suoi vini non è circondato dallo stesso alone canzonatorio di chi, spendendo molto meno tempo, si connette con il mondo nella pausa di un travaso o di una potatura. Indubbiamente la stretta di mano, la stappatura e l’assaggio, il racconto guardandosi in viso sono i momenti “offline” che nessuno smartphone, per fortuna, potrà mai sostituire.  Ma potrà prolungare nel tempo l’effetto di quell’incontro e prepararne, anche a distanza di anni, uno nuovo, mantenendo vivo il contatto. E intanto stimolare la curiosità di nuovi clienti potenziali. 

Ma il termine “digitale” abbraccia campi molto più ampi. Lo scorso mese ho visitato il gruppo CAVIT, gigante cooperativo trentino, per approfondire il loro progetto P.I.C.A.,  il cui coordinatore Andrea Faustini era anch’egli relatore al convegno di Nizza. PICA ha utilizzato il grande patrimonio di competenze tecniche e scientifiche disponibile in quella regione, soprattutto grazie alla Fondazione Mach di San Michele all’Adige. Ne scriveremo sul prossimo numero, ma posso anticipare che è “roba da marziani”. Un vasto programma di rilievi di campo abbinato ai modelli digitali tridimensionali del territorio consentono a CAVIT di sapere praticamente tutto di ogni singola particella, di ogni socio di ogni cantina aderente al gruppo: tipo di suolo, ore di luce in un certo giorno dell’anno, esposizione, rischi di malattie, di stress idrico o di gelate, probabili date di maturazione e vendemmia.  Questo su 5.500 ettari. L’aspetto più straordinario del progetto sta nella qualità e capacità collaborativa di questo gruppo, dei suoi viticoltori e dei suoi tecnici: ma anche l’aspetto tecnologico è fondamentale, perché senza le tecnologie digitali nulla di tutto ciò sarebbe possibile. 
A proposito: tutto il Trentino ha oggi internet a “banda larga”, un alto tasso di scolarità tra gli agricoltori, servizi tecnici di alto livello, in parte pubblici, e molta ricerca applicata. I vignaioli delle province di Trento e Bolzano sono stati mediamente, negli ultimi tre decenni, i meglio pagati per ettaro d’Italia. C’è un collegamento? Ne ho il vago sospetto.

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Per me i vigneti ad alta densità sono una cagata pazzesca! (II parte)

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(cit.  Paolo Villaggio, “Fantozzi”) Dopo il bel pezzo di ieri, ecco le conclusioni.

I concetti di vigore ed equilibrio

Un vigneto è in equilibrio quando lo sono le singole viti. E una vite è in equilibrio (da un punto di vista agronomico, cioè da quello nostro) quando la sua produzione di rami, foglie e grappoli per vite, o, meglio, per metro lineare di filare, o per metro quadro nel caso della pergola o dell’alberello, non è né troppo scarsa (caso raro) né troppo abbondante (caso frequente) e c’è un corretto rapporto tra foglie (dove avviene la fotosintesi) e frutto, indicativamente di 1,5 mq di foglie illuminate per kg di uva. La misura del vigore e/o dell’equilibrio di un vigneto o di una pianta si può fare sulla base di pochi, semplici parametri. Senza entrare nel dettaglio, quando la luce e l’aria circolano all’interno di una chioma di vite, senza che ciò sia dovuto a pesanti interventi esterni di taglio e sfogliatura, c’è equilibrio; al contrario, un materasso di foglie che fa ombra ai frutti, e al mattino gronda rugiada, è segno di squilibrio e porta malattie, da contrastare con l’aiuto della chimica, e difficilmente se ne ricavano buoni vini, soprattutto rossi.

In effetti lo scopo di piantare fitto sarebbe proprio quello di ridurre il vigore per effetto della concorrenza inter-individuo. Ma riuscirci o meno dipende dal contesto ambientale, dal vitigno, dal portainnesto: spesso si ottiene il risultato opposto. Questo perché il vigore di una pianta è determinato del vigore di ogni singolo germoglio (la sua lunghezza, le sue ramificazioni, la dimensione delle foglie), il quale, a sua volta, è inversamente proporzionale al numero di gemme lasciate sulla pianta in fase di potatura.

La vite è una liana, che in natura cresce in zone umide e si arrampica sugli alberi fino a decine di metri di altezza: si può capire, intuitivamente, quale forzatura della sua natura sia costringerla in un “campo di concentramento” (Carlo Cambi). Piantando molto fitto si è costretti a lasciare poche gemme e su ognuna di queste si rischia di scaricare un eccesso di vigore: è come se la pianta reagisse con forza a una mutilazione per ricostruire il suo corpo, come un’Idra mitologica. L’effetto di concorrenza tra le piante vicine dovrebbe, in teoria, bilanciare questo squilibrio: ma, in pratica, questo succede solo in alcune situazioni, oppure dopo molti anni. E non succede con vitigni vigorosi, portinnesti vigorosi, climi caldi, terreni fertili che in primavera trattengono l’acqua. Il risultato può essere quindi quello di dar vita a una foresta tropicale, da contenere con frequenti cimature meccaniche, che, se la disponibilità idrica è buona, provocano ritardo di maturazione (in un solo caso ciò può essere positivo, almeno a breve termine: quello di vitigni precoci in climi troppo caldi, come il Merlot in Sicilia, possibilmente irriguo). Infatti l’acqua consumata è direttamente proporzionale alla quantità di foglie che traspirano per unità di superficie. Il fatto che negli impianti fitti ci sia maggiore sviluppo radicale per metro cubo (ammesso che sia sempre vero) può non bastare a compensare il maggior consumo. E’ una semplificazione, perché la superficie fogliare di un vigneto non dipende solo dalla densità di impianto: ma, in linea generale, filari più stretti vuol dire più foglie e più consumo.

La viticoltura post-fillosserica, su piede americano, ha accentuato il lussureggiamento: i portinnesti resistenti al calcare, e quindi adatti a gran parte della viticoltura italiana collinare e di pregio, sono anche, più o meno, vigorosi (peraltro quelli deboli si dimostrano anche, spesso, meno longevi). Aggiungiamo il riscaldamento del clima, che, negli impianti fitti e a chioma bassa, allo stress idrico aggiunge spesso lo stress termico, perché nelle ore più calde la temperatura cresce avvicinandosi dal suolo (l’opposto accade di notte) fino a “cuocere”, nel caso di eccessi termici, precursori aromatici e colore nel frutto.

Francia, il grande equivoco

I sostenitori dell’impianto fitto additano a modello il nord della Francia: la Borgogna, la Champagne. Dimenticando di osservare che, dal Midi alla Champagne, le densità crescono in modo proporzionale alla latitudine. A parità di altri fattori, lo sviluppo della chioma è legato alle temperature primaverili. In Champagne si avvicinano tra loro le viti perché la vegetazione trova limitazioni naturali, e i filari perché la produzione di uva in un vigneto a spalliera si misura, grosso modo, in kg per metro di filare: più filari per ettaro vogliono dire più produzione. Quindi non si pianta fitto per migliorare la qualità, ma per fare più uva.

So che molti non ci crederanno, e allora porto un esempio: mentre l’Italia erogava contributi comunitari per la “ristrutturazione dei vigneti” (che doveva servire a migliorare la qualità senza aumentare la produzione) mettendo come condizione, almeno in alcune regioni, l’infittimento degli impianti, nel Beaujolais si assegnava lo stesso contributo comunitario con il vincolo esattamente opposto: ridurre la densità di impianto e assicurare un interfilare non più stretto di 2 metri.

In ogni caso l’impianto fitto, anche dove può essere giustificato da condizioni locali e obiettivi enologici, è un modello di viticoltura intensiva, che richiede elevati input energetici , idrici (se non provvede Giove), finanziari e fitosanitari, e le piante possono avere vita più breve.

Concludendo (per modo di dire, perché questa è una discussione che non finirà mai) voglio ringraziare il collega e amico Riccardo Castaldi, con cui ho spesso ragionato e condiviso pensieri ed esperienze su questo argomento, oltre agli altri colleghi e maestri citati.

Foto lefigaro.fr

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